Il culto dell’esperto contro la «kasta» scientifica

by Sergio Segio | 29 Marzo 2013 7:48

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Non è vero che Grillo ce l’abbia con i giornalisti italiani. Laura Margottini, ad esempio, è riuscita a intervistarlo. Ma lei aveva un asso nella manica: Margottini lavora per la prestigiosa rivista scientifica inglese New Scientist e Grillo non poteva certo tirarsi indietro. Infatti, il rapporto tra scienza, tecnologia e cittadinanza, cui gli altri partiti dedicano al massimo qualche stanco convegno, è al centro del suo discorso politico. I gruppi che animano il MoVimento discutono molto sui rischi e sulle manipolazioni cui la scienza ci espone. Lo dimostrano le recenti sparate sui vaccini o i tanti messaggi di questi giorni sui forum di www.beppegrillo.it a favore della «terapia Vannoni» basata sulle cellule staminali mesenchimali, da impiegare su quattro bimbi gravemente malati ma unanimemente bocciata dalla comunità  scientifica.
Una fede entusiastica
Qualunque bufala scientifica ha trovato terreno fertile nel MoVimento, ma sarebbe sbagliato liquidare i grillini come un popolo credulone e oscurantista. Beppe Grillo dà  spazio anche a documentate campagne di contro-informazione, come quelle contro il Tav in Val di Susa: d’altronde, i movimenti possono oggi basarsi su capacità  tecnico-scientifiche autonome in cui le istanze sociali si integrano con i pareri di esperti riconosciuti. La comunità  scientifica non è affatto demonizzata da Grillo, se è arrivato a millantare una consulenza del premio Nobel Joseph Stiglitz nella stesura del suo programma economico. Anzi, l’entusiasmo per il progresso talvolta sconfina nel «tecno-utopismo», la fede nelle possibilità  salvifiche della tecnologia, soprattutto quando il leader esalta le possibilità  aperte da Internet. «Ma Grillo una volta spaccava i computer sul palco», viene spesso ricordato. Appunto: le due anime, quella oscurantista e quella scientista, convivono senza troppa difficoltà  nel MoVimento, perché da tempo non sono più in contraddizione tra loro anche nella società . Piuttosto, paiono alimentarsi a vicenda. Il centro di ricerca «Observa» pubblica da quasi un decennio un rapporto annuale su scienza e opinione pubblica, in cui due dati vengono puntualmente confermati: la fiducia degli italiani nei confronti degli scienziati, maggiore che in altri paesi europei, e la scarsa alfabetizzazione scientifica. I media parlano sempre più spesso di scienza anche fuori dalle pagine scientifiche, ma la cultura scientifica dei giovani è persino peggiore di quella degli adulti. Come possono stare insieme queste due tendenze?
La fiducia nei ricercatori non va interpretata come sintomo di consapevolezza scientifica diffusa. Anzi, proprio la fede acritica può generare i più alti livelli di consenso. Non è un caso se, come dimostrano le discussione online dei grillini, lo stesso consenso può ribaltarsi facilmente nel rifiuto allergico e nel «complottismo»: lo scienziato-mago è quello che si trasforma più facilmente nello scienziato-strega. Beppe Grillo ha avuto il merito di capire che la divisione tra scientisti e oscurantisti è solo apparente e che le due fazioni possono anzi federarsi, e scambiarsi di posto a turno.
Grillo ha saputo intercettare la critica al potere tecnoscientifico inserendola nella cornice ideologica che lo caratterizza: quella della rivoluzione dei cittadini che, armati delle loro competenze, sono in grado di far emergere una verità  celata per interessi occulti, che sia sui vaccini, sull’euro o sui detersivi. Del resto il parlamento italiano non ha avuto bisogno del M5S per mettere all’ordine del giorno temi improbabili: nell’ultimo decennio, solo sulle scie chimiche diversi governi hanno risposto a una quindicina di interrogazioni parlamentari, quasi tutte firmate da parlamentari del centrosinistra.
Grillo però fornisce anche strumenti di partecipazione, per esempio l’invito a inviare al suo blog le segnalazioni «dal basso» dei livelli di radioattività . Si badi a non scambiarlo per folklore. Basta leggere i documenti della Commissione Europea sulla programmazione scientifica del prossimo decennio per rendersi conto che la cosiddetta citizen science (la scienza «subappaltata» ai cittadini comuni) è un fenomeno in espansione, con cui la ricerca pubblica conta di recuperare credito su temi socialmente rilevanti. Certo, nell’intervista al «New Scientist», Grillo ha svicolato su questi temi. Ha preferito rassicurare il lettore, attingendo alla retorica benpensante della scarsità  degli investimenti pubblici, della fuga dei cervelli e della meritocrazia. Ottimi propositi, ma una politica della ricerca deve essere in grado di stabilire priorità  condivise. È un obiettivo compatibile con la giungla dei Meetup, dove gli scienziati sono la «ka$ta» da abbattere o l’«Esercito della salvezza» a giorni alterni?
La reazione dei ricercatori potrebbe essere una variabile decisiva per il futuro politico di Grillo. Finora, la comunità  scientifica ha alimentato gli estremismi raccolti dal MoVimento 5 Stelle. Per raccattare fondi, gli stessi ricercatori hanno prediletto il terreno della suggestione a buon mercato piuttosto che lo sviluppo di un’opinione pubblica critica. Come dimostrano i risultati in termini di investimenti pubblici o la battaglia sulla legge 40, questa strategia si è rivelata perdente. Si pensi allo scontro tra medicina convenzionale e omeopatia. Per difendere il metodo scientifico come un dogma infallibile, i ricercatori hanno raccontato una scienza che applica protocolli automatici evidence-based, in cui il fattore umano non interviene, per distinguerla dall’arbitrarietà  delle proposte alternative. Ma così hanno rappresentato una scienza disumanizzata peraltro inesistente.
I laboratori aperti
Per contrastare le medicine «alternative» forse sarebbe stato meglio anticipare i propri critici e mettere in piazza tutte le falle del sistema farmaceutico industriale, a cominciare dai conflitti di interessi – siamo il Paese in cui il ministro della Sanità  (Sacconi) può essere il marito del direttore generale di Farmindustria, com’è successo nell’ultimo governo Berlusconi. Non basta «uscire dai laboratori», cioè mandare più scienziati in televisione per «educare» i cittadini, ma bisogna invece aprire le porte dei laboratori e dei consigli di amministrazione al pubblico controllo.
Eppure alcune utili lezioni erano a portata di mano. Negli anni Novanta il «caso Di Bella» fu risolto da un ministro intelligente, Rosy Bindi, che diede temporanea cittadinanza scientifica a un metodo assai discutibile, ammettendolo ai trial clinici nonostante la contrarietà  degli scienziati e diffondendone i risultati: un caso raro per una terapia bocciata. Aumentare la trasparenza, anche sugli interessi commerciali, rinunciare alla proprietà  intellettuale, favorire l’accesso alle conoscenze sarebbero segnali di grande apertura. Invece un atteggiamento da cittadella assediata, come quello che prevale tra i ricercatori che si sono espressi sul caso delle staminali, può solo gonfiare ulteriormente lo tsunami.

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