Il colloquio con Alfano sulla «discontinuità » al Quirinale

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Su questi due temi il leader del Pd ha illustrato al segretario del Pdl le proprie idee, che da una parte confermano una certa rigidità  di impostazione sulla struttura del governo a cui sta lavorando, ma dall’altra manifestano un inequivocabile segno di apertura al centrodestra sulla scelta del prossimo capo dello Stato.
Le intenzioni di Bersani sono chiare e il linguaggio usato con Alfano è stato altrettanto esplicito. Il «pre-incaricato» auspica che Pdl e Lega garantiscano in Senato le condizioni affinché il governo possa nascere, e siccome — l’ha ripetuto anche ieri — «la mia proposta è rivolta a tutto il Parlamento», sarebbe disponibile a discutere su alcuni punti programmatici da concordare, riservandosi persino di inserire nella propria squadra ministri in cui il centrodestra potrebbe per certi versi riconoscersi. Questo è il suo «piano A», così l’ha definito, che muove da una chiusura intransigente all’ipotesi di un governissimo e tuttavia è accompagnato da un’offerta sul Quirinale che ricalca i gesti di «discontinuità » sulle presidenze delle Camere di cui va «fiero».
E se ieri Bersani ha detto che di quegli atti di discontinuità  «ne farò degli altri», c’è un motivo. Nei suoi intendimenti — qualora il «piano A» venisse accettato — c’è la disponibilità  a discutere sul nome di un rappresentante dell’area moderata da eleggere al Colle, una personalità  che non dovrebbe essere targata Pdl — questo è chiaro — ma che consentirebbe a quella parte del Paese di centrodestra, di sentirsi finalmente rappresentata.
Ecco la svolta, che non è un’operazione tattica per portare a compimento la sua missione (impossibile) per Palazzo Chigi, semmai è un convincimento che Bersani ha maturato e non da solo nel suo partito. Sì, perché tra i democratici — e non sono pochi — c’è chi riconosce un «fondamento storico» alle tesi «rozzamente rappresentate» da Berlusconi, che chiede un segno di «discontinuità » sul Colle dopo «quattro capi di Stato di sinistra». Anzi, nel Pd c’è chi sostiene che al Quirinale l’alternanza tra esponenti di diversa estrazione politica si sia interrotta molto prima, «dai tempi di Pertini». Perciò l’argomento è tenuto in considerazione, a patto che si discuta di personalità  riconosciute, fuori dai partiti e di forte spirito repubblicano.
Ma non è solo per una questione culturale che Bersani è pronto a concordare con il centrodestra l’ascesa di un moderato alla presidenza della Repubblica. Il punto è che in Parlamento non sono possibili oggi prove di forza, non ci sono cioè blocchi capaci di imporre l’elezione di un nuovo capo dello Stato, nemmeno dalla quarta votazione: il Pd è diviso, Scelta civica è spaccata, i Cinquestelle hanno già  dimostrato di non reggere alle votazioni a scrutinio segreto, e anche la solidità  dell’asse Pdl-Lega è da verificare nei passaggi decisivi.
«Sono frantumazioni — spiega il senatore pd Gotor — prodotte da una situazione d’incertezza che provoca la scomposizione. In questo quadro — aggiunge lo storico, fedelissimo di Bersani — non credo in candidature di rottura o partigiane per il Colle. Perché non sarebbero politicamente praticabili e soprattutto perché non farebbero bene alle istituzioni». In un simile contesto perderebbe quindi forza la candidatura di Prodi, che peraltro farebbe gridare al «golpe» Berlusconi, a vantaggio di profili come quello del ministro dell’Interno, Cancellieri, e del fondatore del Censis, De Rita, sempre restio però a incarichi politici. E comunque, se davvero si arrivasse a una trattativa, toccherebbe al Pdl avanzare al Pd la proposta di una «rosa», nella quale troverebbe posto Urbani.
Non è servito molto tempo al leader democrat per illustrare ad Alfano il suo «piano A», che non contempla ulteriori margini di mediazione. Qualora il centrodestra dovesse rifiutare la proposta, «allora ci sarebbe solo il piano B». Bersani non lo ha esplicitato, e nel Palazzo le supposizioni sono numerose quanto poche fondate: dall’idea che Bersani punti al Colle per far spazio a Renzi nel partito, alla prospettiva di un’intesa con i grillini per il Quirinale in cambio di un’agibilità  al Senato per il governo. Una cosa è certa, e il «pre-incaricato» l’ha detta al segretario del Pdl: «Proverò fino in fondo ma un governissimo non voglio farlo. La mia gente preferirebbe piuttosto tornare a votare».
Probabilmente per questo Bersani non ha dovuto esporre il «piano B». Perché se davvero si precipitasse verso le urne in giugno, con un Parlamento in stallo anche per l’elezione del capo dello Stato, di soluzioni per il Colle ne resterebbero davvero poche. Forse una sola, che il leader del Pd e Alfano conoscono: rieleggere Napolitano, «alla prima votazione» come racconta un autorevole ministro. È vero, il presidente della Repubblica ha ripetuto anche ieri che «alla mia età  non sono ammessi straordinari», ma è altrettanto vero che «se gli venisse chiesto dal Parlamento — come dice spesso il Cavaliere — non potrebbe tirarsi indietro». In quel caso, tornato nella pienezza dei suoi poteri, il capo dello Stato potrebbe sciogliere le Camere. E si andrebbe al voto, magari con il governo Bersani sfiduciato…


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