Il braccio di ferro con il Quirinale
Pierluigi Bersani ha messo sul tavolo le sue carte.
Molte delle quali erano già note. Ha chiesto al suo partito di sostenerlo in questa prima fase di trattative. Basa il suo ragionamento sul risultato elettorale: il centrosinistra ha la maggioranza assoluta alla Camera, quella relativa al Senato. Un dato sufficiente per reclamare l’incarico di formare un governo. O almeno di provarci: di sondare fino in fondo l’indisponibilità di Beppe Grillo a far nascere qualsiasi tipo di esecutivo che non sia guidato da un esponente del Movimento 5Stelle. Una esplorazione avviata rimettendo sul tappeto due concetti che, a suo giudizio, potrebbero intercettare il gradimento grillino (e anche di Matteo Renzi): quello di unire l’opportunità di un’alleanza Pd-M5S al cambiamento; e quella della governabilità non disgiunta dalla società civile. Quasi che volesse dire all’ex comico: sono pronto a guidare il Paese tenendo conto delle istanze esplose nel voto al Movimento e provenienti dai ceti più disagiati e disgustati dai “vecchi” partiti. Certo, è il ragionamento di Bersani, se poi la risposta resta negativa, allora la responsabilità del caos non può che ricadere su Grillo: ci abbiamo provato ma se i vitalizi, gli stipendi dei parlamentari, i costi della politica sono sempre gli stessi, allora la colpa è loro e non nostra.
Un ragionamento che per ora è stato sufficiente per incassare il via libera dei Democratici. Per ora. Perché la vera partita si giocherà nei prossimi giorni. Nel Pd, infatti, in pochi scommettono sulla possibilità che il cosiddetto “piano A”, quello disegnato dal segretario, possa avere davvero successo. Non lo pensano i leader delle correnti e soprattutto non lo crede il presidente della Repubblica Napolitano. Il voto sostanzialmente unanime espresso al termine della riunione è il segno più marcato che si è trattato di un passaggio preliminare. Di un modo per tutelare la collegialità rinviando il confronto sulle “subordinate”. Quali? Un altro governo, con un presidente del Consiglio non di partito, che raccolga i voti in tutti gli schieramenti. Anche il Pdl. Oppure il ritorno alle urne. Il Pd, se e quando Bersani avrà esaurito il suo mandato, si troverà di fronte ad un bivio che può spaccarlo come è accaduto in passato.
Stavolta, però, il quadro è decisamente più complicato. Perché sulle due alternative è già in corso da dieci giorni un vero e proprio braccio di ferro tra il Quirinale e la segreteria democratica. Napolitano non può accettare di concludere il suo settennato lasciando l’Italia nel limbo di un’altra campagna elettorale, Bersani non può accettare di far cadere il suo partito nella trappola delle “larghe intese” consegnando un vantaggio competitivo ai grillini alle prossime elezioni. Soprattutto non può accettare l’idea di dar vita ad una coalizione con Berlusconi. Come dice Massimo D’Alema: con un centrodestra normale sarebbe naturale fare un “inciucio”, ma con il Cavaliere no. Una condizione che per la sua popolarità nel centrosinistra può diventare il vero
atout
contro il “compromesso” ma anche l’irresistibile chiodo a cui appendere lo scioglimento del Parlamento e le elezioni già questa estate.
Eppure nel Pd la faglia si è già aperta. Basti pensare che Veltroni non ha parlato e che lo stesso D’Alema ha comunque prospettato la necessità teorica di una
Grosse Koalition.
La paura di sottoporsi di nuovo al giudizio dei cittadini infatti spaventa tutti: centrodestra e centrosinistra. Il fronte
pronto ad ingoiare un’altra maggioranza spuria si è quindi già materializzato. E il Colle ha fatto intuire quali possano essere le subordinate. Il percorso che conduce ad un “governo del presidente” è la prima vera alternativa. La pressione dell’emergenza economica e i giudizi della comunità internazionale saranno i due fattori che condizioneranno la seconda fase della trattativa. Napolitano vuole fare in fretta: il suo mandato di fatto scade il 15 aprile, quando le Camere si riuniranno per eleggere il suo successore. Il fantasma che agita una parte del Pd (a cominciare dai bersaniani) è quindi quello di un esecutivo che agisca sotto l’ombrello protettivo del presidente della Repubblica, che offra le adeguate garanzie all’Europa e ai mercati internazionali, e che permetta l’approvazione di una nuova legge elettorale. Ma con una controindicazione:
può un “governo del Presidente” nascere e restare in vita se il Presidente cambia? Come è accaduto per Monti, Napolitano è stato il vero tutor dei tecnici. Come è possibile che accada lo stesso se il settennato del Quirinale sta per scadere? Non è possibile, a meno che l’itinerario istituzionale non preveda anche la conferma sul Colle dell’attuale inquilino. Eppure ormai tutto spinge in quella direzione. Se poi le borse e lo spread faranno sentire il
fiato sul collo della nostra politica, se le agenzie di rating dovessero lanciare un ennesimo avvertimento, allora la strada per un esecutivo del presidente diventerà obbligatoria.
Ma quella è forse la terza fase di questa lunga partita a scacchi. Tra due settimane il capo dello Stato affiderà il “primo” incarico. Da qui ad allora, Bersani scommetterà ancora sull’accordo con i grillini. Spera che alcuni dei senatori del M5S inducano il loro capo a più miti consigli e ad avallare almeno una iniziale nascita del governo Bersani. Una speranza che allo stato si sta rivelando vana. Esattamente la considerazione che molti democratici hanno fatto ieri. Forse per questo molti di
loro hanno iniziato a sperare in una “seconda carta” interna al partito, magari una donna, se il centrodestra riuscirà concretamente a “deberlusconizzarsi” il prossimo 23 marzo quando è prevista la sentenza d’appello per il processo Mediaset. Ma affidare le speranze al passo indietro del Cavaliere significa non aver ancora capito come è fatta la destra italiana e quanto è tenace il suo leader. Una ulteriore sentenza di condanna non farà altro che rendere ancora più indigeribile l’opzione di una maggioranza con il Pdl. Anche se qualcuno le volesse mascherare dietro un abusato motto della Prima Repubblica: le convergenze parallele.
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