I due fronti e le vecchie ferite riaperte dalla politica
Caselli quel giorno lasciò tranquillo la Sicilia, e tranquilli rimasero i magistrati che avevano lavorato con lui e si apprestavano a lavorare con Grasso. Fiduciosi di proseguire le loro inchieste nel segno della continuità .
Appena un anno dopo il clima era tutto un altro. I principali collaboratori di Caselli si sentivano messi da parte, soppiantati dalle scelte di Grasso che aveva delegato gran parte delle indagini al procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone, il quale nella stagione precedente (dopo aver partecipato all’inchiesta che portò all’individuazione degli autori della strage di Capaci) aveva scelto l’«esilio» alla Procura circondariale. Nell’agosto 2000 Caselli confidò a La Stampa le proprie preoccupazioni per una politica giudiziaria antimafia che — sosteneva — appariva un po’ troppo accomodante con i rappresentanti delle istituzioni. Grasso gli rispose a stretto giro, sempre sul quotidiano torinese. E lì alluse all’«azione repressiva precedente che, nonostante gli sforzi e l’impegno, è riuscita a ottenere condanne solo sulla stampa, nella fase delle operazioni di cattura, e non sempre nelle sedi giudiziarie e in via definitiva».
Da quella polemica è passato tanto tempo, quasi tredici anni. Ma a leggere gli ultimi botta e risposta siamo sempre lì, fermi alla contrapposizione tra risultati valutati in modo opposto, a seconda dei punti di vista. Alle schermaglie che, gira e rigira, continuano a ruotare intorno alla madre di tutte le indagini su mafia e politica, il processo a Giulio Andreotti, il simbolo del potere trascinato alla sbarra. All’epoca c’era solo l’assoluzione in primo grado secondo la formula che riecheggia la vecchia «insufficienza di prove»; in seguito arrivò la prescrizione per i «reati commessi» fino al 1980, in base alla quale si può dire che quel lavoro non era affatto campato in aria. Intanto si accavallavano le sentenze contraddittorie per Mannino, Carnevale, Contrada (esiti finali opposti, i primi assolti e il terzo condannato), il processo Dell’Utri arrancava (ma alla fine tutte le sentenze di merito sono state di condanna, fino all’altra sera), le assoluzioni del presidente della Provincia Musotto e altre ancora.
E le polemiche — che da queste parti prendono spesso la forma e la definizione di «veleni» — proseguirono. Ma più che i risultati giudiziari dalle differenze per molti versi fisiologiche, ad alimentarle erano i nuovi rapporti di forza dentro la Procura. Con divergenze in cui i confini tra questioni di lavoro e personali si facevano spesso labili, tanto che non era difficile trovare pubblici ministeri che — nella divisione quasi cronica tra «grassiani» e «caselliani» — transitavano da uno schieramento all’altro. A volte con passaggi doppi.
Dalla gestione del pentito Giuffrè all’indagine sul presidente della Regione Cuffaro, i contrasti sono divenuti pubblici, con relativi scambi d’accuse. Tanto che nel 2007 (due anni dopo essere passato da Palermo alla Procura nazionale antimafia, mentre Caselli, stoppato in quella corsa dalla legge contra personam, faceva il procuratore generale a Torino) in un libro intitolato non a caso Pizzini, veleni e cicoria, Grasso denunciò le «calunnie di chi mi colloca tra i “magistrati furbi” che strillano sui giornali contro mafia e politica ma non le perseguono a dovere nella prassi giudiziaria». Sembra di leggere la replica alle accuse di Marco Travaglio, ma sono parole scritte sei anni fa.
Nel frattempo a Palermo era approdato il procuratore Messineo (tuttora seduto su quella poltrona) e i «caselliani» avevano riconquistato spazio. E uno dei pm siciliani più vicini al magistrato piemontese, Antonio Ingroia, disse: «Si sta ripristinando un clima positivo e di collaborazione, le polemiche non servono a nessuno, meglio guardare avanti». Sono bastate un paio di candidature alle elezioni politiche — di Ingroia e di Grasso -, seguite dalla sconfitta di uno e l’ascesa dell’altro alla seconda carica dello Stato, per ricominciare a guardare indietro. Sempre con gli stessi argomenti, Non immaginati da nessuno quel giorno d’inizio agosto del 1999.
Giovanni Bianconi
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