“Ho sopportato troppo dai poliziotti-avvoltoi che continuano a uccidere il mio Federico”

by Sergio Segio | 29 Marzo 2013 7:27

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Prima in periferia, poi sempre più vicino al municipio, dove io lavoro». Patrizia Moretti ha lunghi capelli ricci e ogni tanto li butta in avanti, così nasconde le lacrime. Signora, sono passati otto anni di dolore. Come fa a resistere?
«Io mi chiedo anche: come faccio a essere viva? Mi hanno chiamata madre coraggio ma non è vero. Sono mamma e basta. Sono una donna che vive nel nome del figlio. Tutto qui. Ti alzi al mattino e ti chiedi: cosa posso fare per fare vivere l’amore per il mio Federico? E attorno a me, al di là  delle sigle e delle associazioni, c’è la forza di tante altre mamme. È con questa forza che siamo riuscite a raccontare la verità ».
L’orrore oggi è chiuso in un cassetto, nell’ufficio dove lei protocolla o archivia i documenti del Comune. È la foto che mostra il volto devastato del figlio in una tragica aureola di sangue.
«Riusciranno mai a capire, gli avvoltoi di quel piccolo sindacato, cosa significhi, per una madre, mostrare uno strazio come questo? Questa foto per me è un incubo, ma è una foto che parla. È per questo che l’ho presa dal cassetto e l’ho portata in piazza. Ecco, senza parole sono riuscita a dire a quei poliziotti senza divisa: guardate cos’hanno fatto gli amici che voi difendete. È la stessa immagine che avevo portato a Roma, davanti al Parlamento, quando ancora le sentenze non avevano accertato la
verità ».
I poliziotti del Coisp, il sindacato di polizia, dicono che questa foto è un fotomontaggio…
«Adesso basta, io li querelo. Questa foto è stata mostrata dal Pubblico ministero nel primo processo, come prova del massacro subito. Mio figlio è stato ritratto sul tavolo dell’autopsia. Ci sono anche altre immagini, ancora più pesanti. Vede, adesso ho deciso di ricorrere alla giustizia, di fronte alle falsità  e alle calunnie. Ho già  sopportato troppo. In un blog frequentato da poliziotti hanno scritto che, se io avessi fatto davvero la madre, non avrei allevato “un cucciolo di maiale”. Hanno detto che ero apparsa nei tg con “la mia faccia da c…, falsa e ipocrita».
E così mercoledì lei ha deciso di reagire.
«Questi poliziotti sono degli stalker. Volevo restare lì, chiusa nel mio ufficio, poi ho visto come trattavano Tiziano Tagliani, il sindaco della nostra città . Lui aveva chiesto soltanto che si allontanassero di pochi metri e loro hanno risposto: “Bene, lei ha fatto le sue richieste e se ne può tornare da dove è venuto. Noi qui siamo autorizzati”. Allora ho preso la foto e sono scesa».
Oggi ci sarà  un sit in, in piazza Savonarola, organizzato dagli amici di Federico.
«Spero che siano presenti anche i poliziotti in divisa, il questore e le autorità , così tutti potranno capire che il gruppetto di stalker non è la Polizia. Mi hanno chiamata in tanti, in queste ore. Anche il prefetto Alessandro Marangoni, capo vicario della Polizia, mi ha espresso la sua solidarietà . Guardi questa lettera che arriva da Trieste. “Sono R. T., uno dei poliziotti che già  nel 1974 si batteva per la smilitarizzazione della polizia. Il gruppetto di Ferrara — io rifiuto di chiamarli colleghi — ha calpestato i valori di noi poliziotti democratici”. Io ho sempre detto: non generalizziamo. Ci vuole rispetto, per le istituzioni e per lo Stato. Ma proprio perché c’è questo rispetto, io credo che i tre uomini e la donna condannati per la morte di Federico non possano mai più indossare la divisa della Polizia di Stato».
Con la sentenza della Cassazione (condanne ai quattro poliziotti a tre anni e sei mesi) lei pensava che fosse arrivata la parola fine?
«Sì, mi ero illusa. Ma da quasi un mese sapevo che quel camioncino del Coisp stava girando per la città . Sapevo che gli avvoltoi avevano ricominciato a volare e sentivo che sarebbero arrivati da me. Sapevano dove lavoravo e preparavano la provocazione.
E mi sono tornate nel cuore le paure dei primi sei mesi, quando io e mio marito Lino non riuscivano a sapere nulla della morte di nostro figlio, che per gli inquirenti allora era solo uno scalmanato che aveva mandato all’ospedale i poliziotti. Solo dopo sei mesi abbiamo saputo che gli avevano spaccato addosso due manganelli».
C’è ancora qualche speranza, per lei, di poter vivere senza incubi?
«Vorrei poter fare un passo avanti. Ci sono state anche cose buone. L’altro giorno il nuovo vescovo Luigi Negri ha ricevuto me e mio marito, mentre con gli altri vescovi non eravamo mai riusciti a parlare. Era con noi anche Anne Marie Tsegueu, la donna del Camerun che vide il pestaggio dei poliziotti ed ebbe il coraggio di testimoniare. Il vescovo ci ha detto che il ricordo di Federico deve servire a costruire qualcosa che faccia bene al mondo, che il suo ricordo diventi un inno alla vita. Ci ha dato coraggio e consolazione».
Lei ha un altro figlio, Stefano. Aveva 14 anni, quando suo fratello fu trovato senza vita in via Ippodromo.
«È lui la mia forza segreta. Ho cercato di proteggerlo, quando era piccolo, di tenerlo fuori da questo dramma. Ma adesso ha 22 anni ed è forte. Senza di lui io avrei perso il lume della ragione. Quando è morto Federico ho guardato Stefano e mi sono detta: devi costringerti a restare viva. Devi comportarti bene e cercare di intuire qualche forma di futuro. La morte di Federico, purtroppo, non è stata un omicidio ma una strage. Ha colpito al cuore i suoi amici, cancellando in loro la speranza. Sono loro, Stefano e i suoi amici, che pagheranno più di tutti. Sono pieni di dolore, e hanno tutta la vita davanti».

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