Governo del presidente o ipotesi dimissioni

by Sergio Segio | 30 Marzo 2013 8:16

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ROMA — Si sbloccherà  tutto stamane. In due modi, dall’impatto opposto. La prima possibilità  è di assistere alla convocazione al Quirinale di una personalità  di forte caratura istituzionale (ad esempio un presidente o ex presidente della Consulta), cui Giorgio Napolitano potrebbe affidare l’incarico di formare un «governo del presidente» o «di scopo». La seconda possibilità , ben più traumatica, è di trovarci invece a registrare le dimissioni anticipate del capo dello Stato, che (forse già  martedì 2 aprile) potrebbe decidere di passare la mano al proprio successore, data l’estrema difficoltà  di superare lo stallo. Uno sbocco, questo, che dimostrerebbe come la nostra crisi di sistema renda impossibile, per lui, esercitare quel ruolo che — secondo i costituzionalisti — fa di ogni inquilino del Colle «il motore di riserva che può riattivare i meccanismi inceppati del processo democratico».
E’ questo il doppio scenario con cui dovrebbe chiudersi la tormentata partita apertasi subito dopo le elezioni del 24-25 febbraio. Una sfida alla quale il capo dello Stato ha tentato fino a ieri sera di mettere la parola fine nel modo più costruttivo e utile per il Paese, tale da sedare lo scontro nel quale si è pericolosamente avvitato il confronto politico. Con tutti i partiti ostaggio di interdizioni reciproche, provocazioni, bluff, rimpalli di responsabilità  e, insomma, prigionieri di quelle pregiudiziali e quei «troppi no» che Enrico Letta ha addebitato ieri sera agli antagonisti vecchi e nuovi (Pdl e Cinque Stelle), escludendo però i «no» del suo Pd. Dopo una consultazione lampo che ha riprodotto il clima del conflitto in corso con una prevedibile simmetria di dinieghi, ecco le sole alternative ad un ritorno immediato alle urne.
Certo si aspettava di più, Napolitano, dopo il congelamento del tentativo portato avanti con ostinazione dal segretario del Pd. Si aspettava di essere incoraggiato da una disponibilità  che invece non ha trovato, se non parzialmente e freddamente nella solita, ma non convinta, formula del «ci rimettiamo alla sua saggezza». Rigido si è rivelato il centrosinistra, con un Sel fermo a insistere su un mandato pieno a Bersani, per una sfida in Senato su una incertissima fiducia. Ma sulla stessa linea era anche il gran corpaccione del Partito democratico, con eccezioni ancora piuttosto timide. Indisponibili ad appoggiare l’ultima spiaggia di un esecutivo d’emergenza si sono mostrati pure il Pdl e, con qualche modesto distinguo, la Lega. Un quadro che di sicuro non poteva incoraggiare il presidente quando, all’ora di cena, si è chiuso a riflettere nel suo studio.
«Non sono disponibile a fare governicchi alla fine del mio mandato e all’inizio di una nuova legislatura», ha ripetuto a più di un interlocutore, verificando amaramente quanto fosse rigida l’incomunicabilità  tra i partiti. E ad altri ha confidato: «Un governo del presidente senza il presidente, come si fa? Forse è meglio che sia il prossimo inquilino di queste stanze a far partire, se ci riesce, un esecutivo del genere… almeno potrà  sostenerlo con la forza della propria carica».
Un motivatissimo rovello, il suo. Basta infatti pensare a quale livello di indiretta delegittimazione ne ricaverebbe personalmente Napolitano, se un governo battezzato nel sigillo del suo Quirinale dovesse fallire. Avrebbe, per lui, lo stesso sapore di sconfitta che deve aver provato quando ha visto come è stato fatto cadere, pochi mesi fa, il gabinetto di Mario Monti.
La notte scorsa Napolitano l’ha trascorsa cercando di inventarsi un nome, una parziale lista di ministri e un’agenda, per quell’esecutivo «speciale». Ha avuto qualche contatto con le persone di cui più si fida. E’ un uomo abituato ad analizzare le cose freddamente e con calma, a «governare le passioni», a valutare costi e benefici, le principali e le subordinate di qualsiasi scelta, senza escludere nulla. Tuttavia, il peso di questo convulso passaggio ricade solo sulle sue spalle. E, da ciò che è andato in scena nelle ultime ore al Quirinale, potrebbe ormai avvertirlo come insostenibile. Se dovesse decidere di lasciare, fino a quando non sarà  eletto e insediato il dodicesimo capo dello Stato, i suoi poteri passeranno nelle mani del «supplente», il presidente del Senato Pietro Grasso.

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