Gli studenti interventisti antenati del Sessantotto

by Sergio Segio | 5 Marzo 2013 8:40

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Sessant’anni prima del 1968 si affacciò sulla scena politico-sociale del nostro Paese un movimento giovanile con caratteristiche quasi identiche a quelle che avremmo ritrovato verso la fine del secolo, all’epoca di Adriano Sofri, Oreste Scalzone e Mario Capanna. Nel 1908 si ebbe un’ondata di agitazioni studentesche a carattere irredentista, che si concluse a fine anno con un moto di solidarietà  e di soccorso alle popolazioni colpite dal sisma che aveva devastato la costa della Sicilia orientale e quella calabrese. Come ha ben messo in evidenza John Dickie in Una catastrofe patriottica. 1908: il terremoto di Messina (Laterza), quegli aiuti furono portati nel quadro di uno schema retorico che proponeva uno stretto parallelismo tra la tragedia naturale e la guerra. Schema che, di lì a breve, ebbe occasione di ripresentarsi per l’aggressione coloniale alla Libia (1911) e, poco tempo dopo, per l’ingresso dell’Italia nel primo grande conflitto mondiale (1915). Ma è nel 1908 che tutto si mette in moto, come spiega Catia Papa in un interessantissimo libro che sta per essere pubblicato da Laterza: L’Italia giovane dall’Unità  al fascismo.
L’occasione che diede il la al movimento fu il pellegrinaggio studentesco alla tomba di Giosuè Carducci in un fine settimana a metà  febbraio, nel primo anniversario della morte del poeta. «Dimenticate o rimosse le contestazioni degli studenti bolognesi a Carducci del 1891, quando la sua adesione alla politica crispina aveva generato un autentico tumulto nell’ateneo emiliano», scrive Papa, «l’Associazione degli studenti milanesi redasse un manifesto affisso negli istituti scolastici e pubblicato su “L’Azione studentesca”, nel quale celebrava il “Maestro che insegnò la religione della Patria e del Dovere”, invitando tutti gli studenti ad andare a deporre una corona di fiori sulla tomba eretta ad “Altare della Patria”». L’irredentismo, Carducci e Messina erano in realtà  poco più che pretesti per dar sfogo a una rivolta dei figli contro i padri appartenenti alla «generazione di mezzo» (di mezzo tra quella che aveva fatto l’Italia e quella che avrebbe combattuto la Prima Guerra Mondiale), accusati di essere privi di ideali e inadatti a raccogliere le bandiere affidate loro dai genitori che avevano animato il Risorgimento.
In realtà  la storia delle ribellioni giovanili era iniziata molto tempo prima. Philippe Ariès, in Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (Laterza), ha reso evidente come, già  alla vigilia del 1789, la deruralizzazione, l’urbanizzazione e la trasformazione dei mestieri avevano progressivamente infranto i vecchi vincoli comunitari e familiari, rendendo obsoleti modelli di comportamento e antichi rituali di accesso all’età  adulta. La Rivoluzione Francese fece il resto.
Sergio Luzzatto — nel saggio «Giovani e ribelli rivoluzionari (1789-1917)», pubblicato nella Storia dei giovani a cura di Giovanni Levi e Jean-Claude Schmitt (Laterza) — spiega in maniera convincente che l’«irruzione» dei giovani nella storia non fu un fenomeno novecentesco. Già  con la Rivoluzione Francese si era affacciata l’idea di una gioventù in rivolta contro l’autoritarismo del vecchio ordinamento sociale rappresentato dai padri. Poco più che ragazzi furono sia i rivoluzionari sia, poi, quelli che seguirono Bonaparte nelle sue imprese. E giovanissimi del tipo di quelli formati nel Turnplatz, la palestra all’aperto creata nel 1811 dal professore berlinese Friedrich Ludwig Jahn, furono coloro che accorsero volontariamente a difendere la patria prussiana nelle battaglie antinapoleoniche. Poi, nell’età  della Restaurazione, come ben descrive Arianna Arisi Rota in I piccoli cospiratori. Politica ed emozioni nei primi mazziniani (Il Mulino), il movimento nazionale italiano fu reso forte proprio dall’idea di una «missione storica generazionale». Ma furono i tedeschi a esportare le modalità  del nuovo protagonismo giovanile. Anche in campo avverso: dopo la sconfitta inflittale nel 1870 dall’esercito prussiano, la Francia, diventata Repubblica, abbracciò quel modello ginnico-militare di educazione dei giovani che aveva innervato il processo di unificazione nazionale della Germania.
Da metà  Ottocento al Novecento, ricorda Catia Papa, la popolazione europea era cresciuta di quasi il 60 per cento. A questo «vistoso aumento, generato dai progressi della medicina e dell’igiene, aveva però corrisposto un generale calo della natalità , dovuto a un progressivo cambiamento dei comportamenti sessuali e dei modelli familiari… Più che un boom di nuovi nati, dunque, si ebbe un sensibile allungamento della vita, a cui poteva seguire un’estensione nel tempo dell’età  giovanile e la prevedibile emersione di una tensione generazionale». Ovvero, in altri termini, si annunciò «un prossimo futuro di “vecchiaia” delle società  europee, incalzate da una schiera di ventenni frustrati nelle loro aspettative e potenzialità ». Fu così che all’inizio del Novecento in molti Paesi europei si diffusero associazioni promosse e gestite per dare un orizzonte ideale agli adolescenti.
La più famosa fu quella tedesca dei Wandervoegel (uccelli migratori) che George Mosse nel saggio Le origini culturali del Terzo Reich (Il Saggiatore) ha definito «il simbolo della rivolta delle nuove generazioni contro la vecchia». Winfried Mogge, che se n’è approfonditamente occupato in I Wandervoegel: una generazione perduta (Socrates), ha messo in evidenza come nell’estate del 1914 molti ragazzi appartenenti a questa associazione risposero volontariamente all’appello della Patria in guerra, immolandosi a migliaia nei campi di Langemark, la cittadina delle Fiandre teatro della prima grande battaglia seguita all’invasione tedesca del Belgio. In Italia invece le cose sembravano andare in modo diverso. A uno sguardo d’insieme, scrive Papa, «la gioventù studiosa italiana d’inizio Novecento sembrava positivamente incanalata sulla via di un’integrazione responsabile, laica e patriottica, alla vita associata con le sue regole e i suoi valori… Un processo di responsabilizzazione nazionale del ceto studentesco che rispondeva all’investimento pedagogico, culturale e politico degli adulti, di cui le comunità  studentesche erano state le prime artefici e promotrici». Ma, nella pur breve tradizione unitaria, esisteva già  un passato di segno diverso.
I primi decenni successivi al 1861 erano stati caratterizzati da «tumulti» universitari locali «contro l’applicazione dei regolamenti nazionali che sopprimevano le antiche prerogative dell’autonomia universitaria riguardo la scelta dei programmi, il sistema d’esami, le tasse o anche la durata delle vacanze e la possibilità  per gli studenti di costituirsi in associazioni». Dalla metà  degli anni Ottanta, prosegue Papa, «i moti studenteschi avevano preso una diversa coloritura perché volti a ottenere una riforma dell’istituzione che le conferisse maggiore razionalità  e professionalità  e, dunque, perché rivestiti di un carattere di protesta contro il governo nazionale che li faceva convergere con le piattaforme delle forze politiche di opposizione, dell’estrema sinistra come dei cattolici». Mai però le agitazioni ebbero a fine Ottocento quel carattere eversivo paventato già  allora dai moderati. Neanche quando, al principio degli anni Novanta, i circoli universitari democratici provarono a guidare un movimento più ampio. Semmai qualcosa di insolito si intravide nella seconda metà  di quel decennio, allorché, nel corso della crisi politica e istituzionale di fine secolo, larga parte del corpo studentesco si schierò contro le degenerazioni autoritarie della classe dirigente. Tra la fine del 1897 e il 1898, in molte università  dell’Italia settentrionale sorsero circoli universitari monarchici che si proponevano di «contrastare la propaganda socialista e, al contempo, di rinnovare le basi dello Stato liberale». Al favore di questi circoli si dovette la nascita e la diffusione del movimento dei Giovani liberali, la cui idea originaria era stata lanciata nel 1897 da Giovanni Borelli, ex maestro elementare, ora direttore della rivista milanese «L’idea liberale», dalla quale si auspicava una rifondazione del liberalismo italiano che si accompagnasse a una decisa azione di contrasto ai gruppi dell’estrema sinistra e al Partito socialista.
Nel marzo del 1901 molte comunità  universitarie scendono in piazza per attestare solidarietà  al movimento studentesco russo, violentemente represso dalla polizia zarista. A Roma in quattrocento si danno appuntamento alla Sapienza per votare un ordine del giorno di protesta contro il regime di San Pietroburgo e chiamare tutti gli atenei del Regno alla mobilitazione. Altre manifestazioni si svolgono a giugno per chiedere la proroga della sessione di esami a favore degli studenti che hanno partecipato ai cortei di marzo. Contro di loro scendono in campo gli studenti socialisti, i quali si scagliano contro il «volgarissimo contegno di quei giovani universitari che hanno cercato di affermare un loro particolare interesse in modo tanto indecoroso». Alla fine di quello stesso 1901 il socialista Enrico Ferri, docente di Diritto nell’ateneo romano, pronuncia alla Camera un discorso che gli studenti nazionalisti giudicano «offensivo dell’onore nazionale». In vista della ripresa delle lezioni di Ferri, nel gennaio del 1902, il circolo universitario monarchico fa circolare appelli affinché gli studenti facciano valere le loro ragioni contro il professore. Il rettore rinvia l’inizio del corso, ma sostenitori e detrattori di Ferri si affrontano più volte anche in modo violento, finché il rettore decide di chiudere l’Università  e di farla piantonare dai carabinieri. Segno che qualcosa stava cambiando.
Fu in quel clima che nacque, ad opera di Efisio Giglio Tos, uno dei più importanti sodalizi studenteschi dell’epoca: i «Corda Fratres», il cui primo congresso si tenne a Roma nell’aprile del 1902, alla presenza del ministro dell’Istruzione Nunzio Nasi nonché di molti professori e rettori. «In assenza di un movimento giovanile di contestazione dell’autoritarismo paterno e degli adulti in genere in famiglia o tra le aule scolastiche», scrive Papa, «la retorica generazionale rappresentò uno strumento di promozione sociale e politica di un’élite intellettuale che seppe fare dell’Italia una patria d’elezione del “ribellismo giovanile” a fini patriottici». Dopo la guerra di Libia, che pure viene parzialmente criticata («fatalmente inutile») perché avrebbe potuto distrarre dagli obiettivi dell’irredentismo, prosegue Catia Papa, dai circoli alle piazze, durante la mobilitazione per la «vera guerra» dell’Italia (quella per Trento e Trieste) «l’immagine dell’élite studentesca custode e garante delle tradizioni nazionali, il culto della patria come fattore identitario, quindi ancora l’etica e l’estetica del sacrificio poterono più di qualsiasi distinzione partitica». L’unità  delle varie anime dell’interventismo italiano «fu sperimentata con successo in primo luogo nel mondo studentesco, ancora una volta sotto l’egida delle società  nazionali, largamente egemonizzate dai nazionalisti, ma formalmente apolitiche e tradizionalmente votate a far da cerniera tra sensibilità  patriottiche anche divergenti». È il contesto di «rivolta giovanile» nel quale, ad opera di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, nascono il «Leonardo» e poi «Il Regno», il primo periodico nazionalista italiano ideato assieme a Enrico Corradini e ad alcuni esponenti dei Giovani liberali di Giovanni Borelli. E ancora di Filippo Tommaso Marinetti con i futuristi, di cui ha efficacemente trattato Emilio Gentile in La nostra sfida alle stelle (Laterza), che glorificavano la giovinezza come principio guida della storia, con tanto di esaltazione della guerra quale «rito di iniziazione primitivo e necessario di una gioventù votata alla grandezza nazionale». Altre e più importanti riviste furono «La Voce» dello stesso Prezzolini e «Lacerba» di Papini e Ardengo Soffici, che si proponevano di rifondare l’Italia sotto la guida di «minoranze coscienti e volitive», capaci di orientare le masse. «Percepirsi parte di una generazione, rivendicare il primato sociale dell’intellettuale e autocandidarsi alla leadership culturale e politica del Paese erano in sostanza tre momenti di un’unica partitura». Partitura destinata a riproporsi più volte nel corso del Novecento.
Nel 1914-15 la piazza interventista italiana venne «animata da questi giovani ormai trentenni e dai loro fratelli minori, dagli studenti universitari e secondari». Come hanno più volte messo in luce Mario Isnenghi e Silvio Lanaro, forte di un clima culturale e politico ampiamente dissodato, il «codice generazionale assorbì larga parte della propaganda per l’entrata in guerra dell’Italia». La guerra, scrive Papa, «come impeto di eroismo giovanile, come occasione di rigenerazione del “corpo” nazionale infiacchito da un ceto dirigente senile e da egoistiche tensioni sociali, come opportunità  per far saltare i vecchi equilibri di potere e promuovere l’ascesa di nuove e virili aristocrazie nazionali». La guerra «nobile voluta dai giovani, per un’Italia destinata a nuova grandezza, contro la guerra ignobile delle classi che nei decenni precedenti aveva rischiato di logorare l’organismo nazionale». Tanto più che quelle guerre erano state perse.
In un saggio dedicato alle «radiose giornate» del ’15 (pubblicato da Il Mulino nel volume a più voci Miti e storia dell’Italia unita) Giovanni Sabbatucci, qualche anno fa, ha ben spiegato come questa «piazza» giovanile esercitò una pesante pressione sulle scelte della classe dirigente, al fine di determinare la nostra entrata in guerra a fianco dell’Intesa: «O meglio di impedire che la decisione in tal senso, già  presa dai responsabili della politica estera italiana (Salandra, Sonnino, Vittorio Emanuele III) e ufficialmente sancita il 26 aprile dalla firma (peraltro segreta) del Patto di Londra, potesse essere sconfessata da un pronunciamento in senso contrario della Camera elettiva». Democratici intemerati come Bissolati e Salvemini, osservava Sabbatucci, non seppero riconoscere «le valenze antidemocratiche (oltre che antiliberali) implicite in una mobilitazione diretta contro il primo Parlamento eletto in Italia a suffragio (quasi) universale maschile». Personalità  di grande spessore civile non avvertirono l’esigenza di dissociarsi dagli «aspetti più beceri e più violenti della campagna interventista»: dalla «ripetuta minaccia (a volte attuata) di passare a vie di fatto contro gli avversari, alla denuncia isterica delle presunte infiltrazioni tedesche nel mondo dell’economia e della cultura (compresa la campagna, di sapore vagamente razzista, contro le “mogli tedesche”), agli insulti distribuiti a piene mani contro la “falsa” rappresentanza elettiva».
È in quel momento che nascono l’idea della «contrapposizione di un Paese reale supposto buono a una rappresentanza giudicata falsa e corrotta», «l’attribuzione alla propria parte del ruolo di autentica interprete degli interessi nazionali», «la rivendicazione della guida del Paese alle minoranze eroiche e alle autodesignatesi élite consapevoli». Sono temi, questi, messi molto bene a fuoco da un altro libro appena pubblicato da Il Mulino: Di padre in figlio. La generazione del 1915 di Elena Papadia. Che quella di cui stiamo parlando sia una generazione esistita come tale è dimostrato dal fatto che essa, ha scritto Papadia, «soddisfa tutti i criteri chiamati in causa di volta in volta per definire un’identità  generazionale»: ebbe «una forte coscienza di sé, instaurò un rapporto dialettico/antagonistico con la generazione precedente (e si autoinvestì dunque, letteralmente, di un compito di rigenerazione), si costruì attorno a un evento specifico e per di più altamente perturbante, in grado cioè di interrompere con uno stacco netto il lento fluire degli eventi». La mobilitazione di questi giovani «espresse un rifiuto violento del mondo ereditato dai propri padri (i “figli dei liberatori”, ovvero degli eroi del Risorgimento) che appariva corrotto da mercanti e politicanti, estenuato dalla perdita di ogni slancio vitale, dominato dalla gelida logica delle “cose”».
Giovanni Giolitti (grande statista, ma, all’epoca, sottoposto a una campagna ostracizzante: «male nazionale», lo definì Adolfo Omodeo; «ministro della malavita», Gaetano Salvemini) fu eretto a simbolo della generazione dei «figli dei liberatori», dimostratasi «indegna dei propri padri», talché toccava adesso ai ventenni il compito di «redimere la mediocrità  della generazione di mezzo, rinnovando appena possibile i fasti della nazione». Di qui «la sovrapposizione continuamente ribadita, anche negli anni del primo dopoguerra, tra i caduti del ’15-18 e i martiri e i volontari del Risorgimento che stringeva esplicitamente il nesso tra nonni e nipoti, i quali, diventati “fratelli” nel nome delle comuni idealità  e della loro giovinezza, rendevano la posizione della generazione di mezzo sempre più pericolante». Nella generazione dei padri, dopo il 1918, si diffuse, secondo Papadia, un senso di smarrimento nonché di «umiliante subalternità  psicologica nei confronti dei giovani artefici della guerra e della vittoria». Sentimenti che diedero un notevole contributo alla riduzione in frantumi della democrazia e allo spalancamento delle porte al fascismo. Fascismo di fronte al quale la «generazione di mezzo» si trovò al cospetto dei suoi figli «in una posizione di drammatica subalternità  psicologica e generazionale».
Per tornare al parallelo iniziale con il ’68, va notato che se maggio fu il mese clou della rivolta studentesca di fine anni Sessanta, fu nel maggio del 1915 — quando i movimenti giovanili scesero in piazza per imporre l’entrata in guerra — che la «generazione dei figli» occupò definitivamente la scena. E la occupò, sottolinea Papadia, «con una particolare concezione della democrazia che continuò per un certo tratto a caratterizzare anche il campo dell’antifascismo… Democrazia sostantiva e non procedurale, che, in nome di un principio etico superiore, poteva coesistere con il disprezzo del Parlamento, dei partiti e delle maggioranze». E che, soprattutto, «legittimava l’azione di una minoranza virtuosa, convinta di tenere nelle proprie mani il destino della nazione». Del resto tutto può essere ricondotto, secondo Papadia, al «mito di derivazione mazziniana dello Stato nuovo come forma di protesta permanente contro la realtà  delle cose, che divenne un tratto identitario di lungo periodo del ceto dei colti».
La storica mette l’accento sulla «reversibilità  ideologica di alcuni elementi costitutivi del mazzinianesimo», reversibilità  «ampiamente dimostrata dalla fede mazziniana di personaggi di spicco del fascismo e dell’antifascismo, da Giuseppe Bottai a Nello e Carlo Rosselli, da Italo Balbo a Ferruccio Parri, dal Delio Cantimori fascista a quello comunista». Più volte nel nostro Paese ci sarà  una minoranza che si autoinvestirà  di una missione salvifica nel nome della quale porsi a contrasto delle maggioranze prodotte dalle elezioni. Minoranze eredi inconsapevoli di quella del 1915, caratterizzata da una notevole «carica antiparlamentare e dall’apologia della violenza quale strumento risolutivo della presunta impasse politico-istituzionale in cui versava il Paese».
La presenza di corpose sezioni giovanili della Trento-Trieste e della Dante Alighieri, della Corda Fratres e della Terza Italia, «rese superflua la creazione di veri e propri comitati studenteschi di propaganda interventista». Piuttosto si formarono battaglioni volontari studenteschi più o meno federati alla Sursum Corda, un’altra associazione giovanile, nata a Milano nel 1910, di spiccata matrice irredentista. Battaglioni «che non avevano e non potevano avere alcuna reale aspettativa di partecipare alle operazioni belliche, appagando piuttosto il desiderio dei giovani studenti di esibire pubblicamente la loro volontà  guerriera». Volontà  guerriera che andò a sfogarsi «con un uso spregiudicato della violenza» contro i neutralisti e, in particolar modo, i socialisti.
Il tono di questi giovani si configura in queste parole pubblicate su «L’ora presente» nel gennaio del 1915: «E poi ché saremo proprio noi giovani che daremo il sangue per questa guerra lungamente attesa, poi ché saremo proprio noi i primi a pagare di persona, si degnino i benpensanti d’Italia di fare qualche inevitabile sacrificio di denaro… Se ritorneremo con le gambe sane ci concederemo l’impagabile gusto di indennizzarli a calci nel sedere». E, in quello stesso gennaio, così scriveva «L’appello dei giovani»: voi socialisti «siete guasti e corrosi dal malor civile, non avete più una speranza, avete perduto tutto ciò che significa conquista, ideale, abnegazione, siete diventati dei bruti tuffati nello sterco, come i dannati nella bolgia infernale… Quando si arriva a tal punto di pervertimento è consigliabile un bel colpo di rivoltella». La campagna contro i professori germanofili e pacifisti reclutò adepti sia nella destra che nella sinistra dello schieramento interventista. All’Università  di Roma furono aggrediti i professori Giuseppe Chiovenda e Cesare De Lollis, impedendo a entrambi per giorni e giorni di tenere lezione. Il 20 febbraio del 1915 il rettore decise di chiudere La Sapienza per evitare che fosse occupata dagli interventisti. Subito partirono agitazioni in molti atenei e, sei giorni dopo quel divieto, gli studenti, ricostruisce Catia Papa, si ritrovarono a Bologna per protestare contro «quei professori che calpestano gli ideali di grandezza patria». La sera di quel 26 febbraio si riversarono per le strade con intenzioni — a detta del prefetto — «tutt’altro che pacifiche poiché nella maggior parte erano armati di nodosi bastoni che nascondevano sotto i soprabiti». Le manifestazioni proseguirono fino ad aprile e colpirono ancora De Lollis e, a Milano, il docente del Politecnico Max Abraham, indicato da Benito Mussolini come un «nemico» da espellere «con ogni mezzo» dalla comunità  accademica italiana. De Lollis decise di reagire e si rivolse alle autorità , offrendo la sua versione dell’accaduto: «Improperi, minacce, vie di fatto, nulla mancò… Fra quelli dell’uditorio che insorsero a protestare in mio favore e i dimostranti vi furono colluttazioni, dalle quali qualcuno uscì malamente e ben visibilmente contuso». Ma le forze dell’ordine fecero finta di niente e le manifestazioni a lui ostili si intensificarono. Qualche giorno dopo De Lollis incontrò a Villa Borghese uno dei suoi contestatori e lo schiaffeggiò. Ne scaturirono altre agitazioni. Alcune manifestazioni ebbero come meta l’«Avanti!» la cui sede fu fatta oggetto di una sassaiola. Ai primi di maggio il professor Abraham lasciò «volontariamente» il Politecnico, ma gli studenti avevano già  obiettivi più ambiziosi e a metà  mese assalirono Montecitorio, riuscendo a imporre la guerra a un Parlamento a maggioranza non interventista.
Una volta che l’Italia fu in guerra, le manifestazioni, anziché cessare, ebbero un’intensificazione. A La Spezia si distinse l’associazione Giovane Italia, promossa dal poeta Ettore Cozzani, che incitava contro la «generazione di mezzo», «parassiti ignobili d’un albero nato dal patimento dei padri e nutrito dal sangue dei fratelli maggiori». Nel 1917 la rotta di Caporetto riattivò su larga scala il «corpo studentesco»: all’indomani della disfatta non si contarono gli appelli all’espulsione o all’internamento dei nati nei territori nemici, fu imposta la chiusura degli esercizi commerciali gestiti da tedeschi e furono più volte aggredite le sedi dell’«Avanti!». Comportamenti che si riprodussero negli anni del primo dopoguerra, offrendo un fertile retroterra al movimento mussoliniano. Ma che — ed è questa la suggestione più interessante di Catia Papa — si riproposero anche nel secondo dopoguerra e non solo nel 1968.

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