Gli spartani del segretario e gli ateniesi del sindaco
E può essere l’indizio di un proposito nobilissimo: difendere la posizione fino alla morte. Ma resta un richiamo piuttosto funesto, tipico di chi è consapevole di essere votato alla sconfitta, e la accetta immolandosi: come ben sapevano i trecento capeggiati da Leonida. In tal caso toccherebbe a Vendola, in quanto poeta, recitare in memoria dei trecento caduti i celebri versi attribuiti a Simonide, definiti da Gennaro Perrotta «la più bella iscrizione funebre del mondo»: «Straniero! Annuncia agli Spartani che noi giaciamo qui per obbedire ai loro ordini!».
Definirsi invece «ateniesi», come i giovani «renziani» in vivace dialettica con i trecento spartani, può essere più promettente. Mentre Sparta fu, secondo una definizione del Fà¼hrer «lo stato razziale perfetto», Atene fu città aperta, ricca, creativa. Se si parla, non a torto, di «miracolo greco» pensando a tutto ciò che dobbiamo ai greci (e che l’«Europa tedesca» spesso dimentica), ben più esatto sarebbe parlare di «miracolo ateniese», visto che quasi tutto ciò che s’è fatto poi, nella filosofia, nell’arte, nel teatro, si fece ad Atene. Che tra l’altro ha coniato le parole della politica che adoperiamo tuttora.
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