FUORI MERCATO. PERCHà‰ L’ECONOMIA HA BISOGNO DELLA POLITICA

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Vi sono momenti, nella storia, in cui sembra che tutti i cittadini del mondo insorgano per dire che c’è qualcosa di sbagliato,
per chiedere un cambiamento. È accaduto con i tumulti del 1848 e del 1968, quando la sollevazione segnò l’inizio di una nuova era. E il 2011 potrebbe rivelarsi un altro di tali momenti. Una rivolta giovanile iniziata in Tunisia, piccolo paese sulla costa del Nord Africa, si è estesa al vicino Egitto e poi ad altri paesi del Medio Oriente. Nel giro di breve tempo i popoli di Spagna e Grecia, Regno Unito e Stati Uniti, come quelli di altri paesi del mondo, hanno avuto anch’essi i loro motivi per scendere nelle strade.
I manifestanti avevano ragione nel sostenere che c’era qualcosa di sbagliato.
Il divario tra ciò che i nostri sistemi economici e politici dovrebbero fare — e che ci avevano fatto credere facessero — e ciò che effettivamente fanno è diventato troppo ampio per poterlo ignorare. I governi del mondo non stavano affrontando problemi economici cruciali come la persistente disoccupazione e, mentre i valori universali dell’equità  venivano sacrificati all’avidità  di pochi, nonostante la retorica del contrario, il senso di ingiustizia si è trasformato nella sensazione di essere stati traditi.
È evidente che i mercati non hanno funzionato nel modo previsto dai loro fautori. I mercati dovrebbero essere stabili, ma la crisi finanziaria globale ha mostrato che possono essere molto instabili e scatenare conseguenze drammatiche. I banchieri, infatti, avevano azzardato scommesse da cui, se non fosse stato per l’assistenza del governo, sarebbero stati travolti insieme all’intera economia. Ma uno sguardo più ravvicinato al sistema ha rivelato che non si trattò di un incidente: i banchieri erano incentivati a comportarsi in quel modo.
La virtù del mercato dovrebbe essere l’efficienza. Ma chiaramente il mercato non è efficiente. La prima legge della teoria economica — necessaria perché l’economia sia efficiente — è che la domanda sia pari all’offerta. Ma viviamo in un mondo in cui enormi bisogni rimangono insoddisfatti: mancano investimenti che facciano uscire i poveri dalla povertà , che promuovano lo sviluppo nei paesi meno sviluppati dell’Africa e degli altri continenti del mondo, che adeguino l’economia globale alle sfide poste dal riscaldamento della Terra. Contemporaneamente abbiamo ampie risorse inutilizzate, come lavoratori e macchinari improduttivi o impiegati al di sotto delle loro capacità . E la disoccupazione — l’incapacità  del mercato di generare posti di lavoro per tanti cittadini — è il fallimento peggiore, la fonte di inefficienza più grave, oltre che una delle cause principali della disuguaglianza.
Nel marzo 2012, circa 24 milioni di americani che avrebbero voluto un lavoro full-time non riuscivano a trovarlo. Negli Stati Uniti, stiamo privando milioni di persone della loro casa. Abbiamo abitazioni vuote e gente che vive per la strada. Ma anche prima della crisi, l’economia americana non stava facendo quello che era stato promesso:
nonostante la crescita del Pil, la maggior parte dei cittadini assisteva all’erosione del proprio tenore di vita.
Per la maggior parte delle famiglie americane, anche prima dell’inizio della recessione i redditi, tenuto conto dell’inflazione, erano più bassi di quelli di un decennio prima. L’America aveva creato una macchina economica meravigliosa, ma che palesemente aveva lavorato soltanto per chi stava molto in alto.
Stiamo pagando assai cara la nostra disuguaglianza e il prezzo è un sistema economico meno stabile e meno efficiente, con meno crescita, nonché una democrazia che è stata messa in pericolo. Ma la posta in gioco è anche più alta: dal momento che il nostro sistema economico sembra aver fallito rispetto al benessere di moltissimi cittadini, e dal momento che il nostro sistema politico sembra ormai preda degli interessi del denaro, la fiducia nella nostra democrazia e nella nostra economia di mercato ne usciranno sminuite insieme alla nostra influenza a livello globale.
Nella misura in cui non siamo più percepiti come un paese di opportunità  e il nostro tanto decantato Stato di diritto, insieme a un sistema giudiziario di cui siamo sempre andati fieri, appaiono compromessi, anche il nostro senso di identità  nazionale potrebbe uscirne minacciato.
In alcuni paesi, il movimento Occupy Wall Street è diventato stretto alleato del movimento contro la globalizzazione. In effetti i due hanno qualcosa in comune: la convinzione non soltanto che ci sia qualcosa di sbagliato, ma anche che un cambiamento sia possibile. Il problema tuttavia non è se la globalizzazione sia buona o cattiva, ma che i governi la stanno gestendo molto male, per lo più a beneficio di interessi particolari. L’interconnessione tra i popoli, i paesi e le economie del pianeta è uno sviluppo che può essere usato in modo efficace tanto per promuovere la prosperità  quanto per diffondere avidità  e sofferenza. Lo stesso vale per l’economia di mercato: il potere dei mercati è enorme, ma essi non hanno alcuna caratteristica morale intrinseca. Dobbiamo decidere noi come gestirli.
Nei loro momenti migliori, i mercati hanno avuto un ruolo cruciale, per gli straordinari aumenti di produttività  e la crescita del tenore di vita degli ultimi due secoli, incrementi di gran lunga superiori a quelli dei precedenti duemila anni. Ma anche i governi hanno avuto un ruolo importante in questi avanzamenti, un fatto che i sostenitori del libero mercato solitamente mancano di riconoscere. D’altra parte, i mercati possono lavorare altrettanto bene a favore della concentrazione di ricchezza, possono trasferire i costi ambientali sulla società  e abusare dei lavoratori e consumatori. Per tutte queste ragioni è chiaro che i mercati vanno domati e temperati, se si vuole essere sicuri che lavorino a beneficio della maggioranza dei cittadini. E occorre ripetere tali interventi più volte, per garantire la continuità  dei risultati. L’abbiamo fatto negli Stati Uniti durante l’“era progressista” quando furono promulgate per la prima volta le leggi sulla concorrenza. L’abbiamo fatto anche con il New Deal, quando vennero varate le leggi sul sistema pensionistico previdenziale (Social Security), l’occupazione e il minimo salariale. Il messaggio di Occupy Wall Street, e di tanti altri dimostranti nel mondo, è che i mercati devono essere domati e temperati ancora una volta. Le conseguenze, altrimenti, saranno serie: in una democrazia che voglia essere tale, dove le voci dei comuni cittadini vengono ascoltate, non possiamo mantenere un sistema di mercato aperto e globalizzato, per lo meno non nella forma che conosciamo, se anno per anno quegli stessi cittadini si impoveriscono. Una delle due, la politica o l’economia, dovrà  dare qualcosa.
Traduzione di Maria Lorenza Chiesara © 2012 . All rights reserved © 2013 Giulio Einaudi editore Spa, Torino Per gentile concessione di Roberto Sanchiara Literary Agency


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