Donne italiane, lavoro e il welfare che non c’è
Basti pensare al caso della Danimarca che, secondo i dati della Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD), per quanto riguarda il welfare, l’uguaglianza di genere e la rappresentanza femminile nel mondo del lavoro, si colloca in cima alla classifica dell’Unione Europea: il tasso di occupazione femminile danese è infatti del 72%, e quello di natalità è di 1,8 figli per donna, contro una media europea di 1,5. Nella classifica del Pil pro-capite, infine, la Daminarca supera l’Italia di ben 14 posti.
“Il segreto sta nell’unione di fattori quali flessibilità , adeguate misure di congedo di maternità , aiuti per la cura dell’infanzia e stabilità sociale, fattori che da sempre hanno ispirato il welfare dei paesi nordeuropei, rendendoli degli esempi a cui guardare sia nel campo dell’uguaglianza di genere sia per gli alti standard di vita che possono offrire ai loro cittadini” commenta la studiosa Emma Pietrafasa in un articolo pubblicato sulla rivista di genere Donne in viaggio. A questo contribuisce anche l’infinita gamma di modalità di lavoro flessibile, e soprattutto una normativa molto avanzata per quanto riguarda i congedi parentali, che hanno una durata di 52 settimane suddivise in modo autonomo tra la madre e il padre.
In Italia, da questo punto di vista, siamo molto indietro, e la causa principale delle difficoltà femminili è spesso la mancanza di un adeguato supporto da parte dello stato in tema di servizi e politiche di conciliazione. Ad esempio, l’offerta di asili nido, pur migliorata negli ultimi anni, resta comunque al di sotto dello standard europeo, e le tariffe (calcolate in ragione del reddito familiare) rimangono spesso proibitive per famiglie a due redditi, diventando insostenibili nel caso di due figli sotto i 3 anni. Oppure i congedi parentali per i papà , che permettono loro di prendersi solo alcuni mesi liberi fino a che il bambino non compie 8 anni. (L’aggiunta di “un” giorno di paternità obbligatoria per i neo papà entro 5 mesi dalla nascita, introdotto di recente dal ministro Fornero, a molti è parso più una beffa che altro).
In questo senso, il paragone con i paesi più avanzati dell’Ue diventa impietoso: in Germania, ad esempio, i padri possono prendere fino a 12 mesi di congedo, al 67% di retribuzione; in Norvegia, i mesi sono 3 al 100%; in Svezia ci sono ben 2 mesi di congedo obbligatorio all’80% dello stipendio e si sta discutendo se non sia il caso di portarli a 3. Alleggerendo così le donne dal peso di una scelta radicale tra maternità e lavoro. In Europa, infatti, è appurato come più natalità equivalga a più partecipazione delle donne nel mondo del lavoro: come ricordato anche dalla Banca d’Italia nel suo rapporto del 2011, con più occupate aumenta il Prodotto interno lordo e diminuisce la povertà di un Paese.
E invece, per quanto riguarda le donne e il lavoro nel nostro paese, la fotografia dell’Istat è inesorabile, e mostra come sempre un’Italia divisa a metà . Se al nord le lavoratrici raggiungono una percentuale del 70% come nel Nord Europa, al sud c’è un vero e proprio baratro, con una percentuale che arriva appena al 35%: la più bassa dell’Unione europea. La media nazionale ci porta invece quasi al 50%, ma le cose non cambiano di molto, dato che d’avanti a noi ci sono solamente Malta e la Grecia post-crisi. I dati Istat affermano, infatti, che solo 47 donne italiane su 100 nel 2012 lavoravano o cercavano attivamente lavoro, contro le 69 spagnole, le 66 francesi, le 72 tedesche e le 77 svedesi.
E ancora, quasi il 34% delle italiane tra i 25 e i 54 anni non ha percepito reddito, una madre su quattro ha perso il lavoro a due anni dal parto e, tra le disoccupate, il 47% non può accedere al conto corrente del proprio compagno. Da segnalare il fatto che il tasso di natalità italiano è dell’1,4, quindi molto più basso rispetto a quello di paesi in cui l’occupazione femminile è più alta. Una conseguenza data da un intreccio tra crisi, disoccupazione, e carenza di politiche di welfare che contraddistingue ormai da molto tempo il nostro paese, e che, tra le altre cose, non permette alle donne italiane di dedicarsi alla propria realizzazione lavorativa quanto vorrebbero.
“In Italia, infatti, gran parte delle politiche sociali delegano alle famiglie la maggior parte dei compiti di cura, sia degli adulti in condizione di dipendenza sia dei bambini – commenta la studiosa Lara Maestripieri – Un compito tradizionalmente svolto dalle donne, che oggi vivono un sovraccarico tra il loro comprensibile desiderio di realizzarsi in ambito lavorativo e il peso famigliare scaricato quasi tutto sulle loro spalle”. Eppure sono sempre di più le italiane che si laureano, e il numero di professioniste è triplicato, passato dal 7% del 1993 al 20,3% del 2010. “Peccato che – spiega ancora Maestripieri – non solo le donne tendono a essere segregate nelle professioni meno redditizie (come per esempio il servizio sociale), ma anche quando svolgono gli stessi compiti vengono valutate (e retribuite) meno degli uomini”.
Dunque, la disparità di genere permane in tutti i campi. In questo senso, Linda Laura Sabbadini, direttore del Dipartimento Statistiche Sociali e Ambientali dell’Istat, mette infine in evidenza un’altra tipologia di lavoro che invece sembra essere in crescita dappertutto, ma che in Italia, come al solito, ha una peculiarità tutta sua, e non in positivo: il part-time.
“Questa tipologia di lavoro è cresciuta a livello europeo, e può essere vista anche come un elemento favorevole per l’Italia, dato che può diventare uno strumento di conciliazione dei tempi di vita per le donne”. Peccato, però, che da noi il part-time sia cresciuto soprattutto per le coppie senza figli. “Insomma – spiega Sabbadini – in Italia sta crescendo il part-time non voluto dalle donne, che sta diventando sempre più uno strumento di flessibilità da parte delle imprese, utilizzato per garantirsi delle turnazioni più lunghe, ma sempre meno uno strumento di conciliazione dei tempi di vita”. E aggiunge: “Negli altri paesi non funziona in questo modo. Basti pensare che, rispetto all’Europa, la componente di part-time non volontaria nel nostro paese è doppia”.
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