Debord contro tutti

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PARIGI. «Tuttala vita delle società  in cui regnano le condizioni moderne della produzione s’annuncia come un’immensa accumulazione di spettacoli». Inizia così il più celebre dei libri di Guy Debord, La società  dello spettacolo, arrivato nelle librerie francesi nel novembre del 1967 e poi tradotto infinite volte in tutto il mondo. Discusso, chiosato, detestato o adulato è considerato ancora oggi uno dei testi che meglio interpretano la condizione contemporanea. Duecentoventuno tesi che si presentano come una teoria critica dell’alienazione dominante, denunciando senza mezzi termini lo spettacolo come condizione onnipresente della società  capitalistica. «Lo spettacolo non è un insieme d’immagini, ma un rapporto sociale tra le persone mediato dalle immagini», scrive colui che all’epoca era l’instancabile artefice dell’Internazionale Situazionista. Lo spettacolo governa le nostre esistenze, s’interpone tra noi e gli altri, recuperando oltretutto ogni forma di contestazione che tenti di rimetterlo in discussione. Di conseguenza, la sua critica — che per Debord era la condizione necessaria per provare a immaginare una vita emancipata dall’ideologia del consumo — non può che prendere le forme di una guerra fatta d’intelligenza, movimento e strategia. Esattamente come quel Jeu de la Guerre che l’atipico intellettuale francese inventò nel 1956 e poi continuò a elaborare negli anni successivi con la volontà  di «riprodurre la dialettica di tutti i conflitti». Un gioco della guerra che è al contempo «sintesi strategica della sua opera e metafora della lotta contro lo spettacolo delle merci», spiega Laurence Le Bras che, insieme a Emmanuel Guy, ha curato l’ampia e affascinante mostra intitolata “Guy Debord, unartdelaguerre”(allaBibliothèquenationaledeFrance dal 27 marzo al 13 luglio).
Proprio quel gioco — che «mira innanzitutto a rompere le linee di comunicazione del nemico» — è stato scelto dai curatori come filo conduttore di un percorso che, oltre a ribadire l’attualità  di Debord in tempi in cui lo spettacolo è più che mai un principio strutturante della realtà , ricostruisce in dettaglio la poliedrica personalità  di un autodidatta — nato il 28 dicembre 1931 e morto suicida il 30 novembre 1994 — che fu al contempo poeta, saggista, cineasta, artista, filosofo, sociologo e militante politico. Anche se — come ricorda Bruno Racine, il presidente della BnF che per Gallimard firma la prefazione del bel catalogo della mostra — l’autore di
Critique de la séparation preferiva considerasi «uno stratega, un arrabbiato e un teorico».
La quasi totalità  dei documenti esposti provengono dagli archivi privati di Debord, acquisiti dalla Biblioteca nazionale nel febbraio del 2011 per 2,7 milioni di euro, e impedendo così che finissero all’università  di Yale. Grazie al vastissimo materiale lasciato dal teorico del situazionismo (manoscritti, lettere, appunti, schede, fotografie, ritagli, volantini), i due curatori hanno costruito un ricco percorso che propone anche diversi quadri e documenti audiovisivi, al cui centro figurano seicento delle oltre millequattrocento schede di lettura vergate dall’intellettuale francese. Per Laurence Le Bras «questo è il vero e proprio cuore pulsante della riflessione di Debord», che per tutta la vita ha incessantemente annotato pensieri e citazioni in una sorta di dialogo permanente con gli autori che prima di lui avevano cercato di comprendere il mondo. «Per saper scrivere occorre aver letto. E per saper leggere occorre saper vivere», scrive Debord, che in una delle schede annota una frase di Carl von Clausewitz che pare scritta per lui: «In qualunque modo io possa immaginare la relazione tra me e resto del mondo, la mia strada passerà  sempre attraverso un campo di battaglia».
Quandopubblicòilsuolibropiùfamoso,l’autore della Società  dello spettacolo aveva già  una lunga carriera di agitatore alle spalle, dentro e fuori i movimenti dell’avanguardia artistico-politica degli anni ’50 e ’60. Aveva per esempio partecipato al movimento lettrista d’Isidore Isou e Gabriel Pomerand, realizzando nel 1952 un film intitolato Hurlement en faveur de Sade.
In seguito, convinto che fosse necessario uscire dal semplice rituale dello scandalo artistico, crea Potlatch, un bollettino politico-culturale che per molti versi anticipa le tematiche dell’Internazionale Situazionista. Questa nascerà  ufficialmente nel luglio del 1957 in un paesino dell’entroterra ligure, Cosio d’Arroscia (tra i fondatori c’erano anche gli italiani Giuseppe Pinot-Gallizio, Piero Simondo, Walter Olmo ed Elena Verrone), sulla base di un testo intitolato Rapporto sulla costruzione delle situazioni.
«Noi pensiamo innanzitutto che occorra cambiare il mondo. Vogliamo il cambiamento per liberare la società  e la vita in cui ci sentiamo imprigionati», si leggeva nella prima pagina del documento, che poi precisava: «La nostra idea centrale è la costruzione di situazioni, vale a dire la costruzione concreta di atmosfere momentanee della vita, e la loro trasformazione in una qualità  passionale superiore».
Negli anni successivi, il percorso di Debord, che tra i suoi autori preferiti menziona Dante, Machiavelli e Petrarca, seguirà  quello del movimento situazionista, la cui avventura s’intreccia con le lotte politiche di quegli anni, specie nel Maggio ’68 cui fornirà , oltre a spiazzanti modalità  di comunicazione, alcuni delle parole d’ordine più efficaci e diffuse. Tra una battaglia e l’altra, mentre nelle riunioni dell’Internazionale Situazionista si succedono scomuniche ed espulsioni (fino alla dissoluzione ufficiale nel 1972), l’intellettuale militante continua a fare film sperimentali come La société du spectaclee In girum imus nocte et consumimur igni.
E intanto pubblica alcuni testi più autobiografici, tra cui Panégyrique e Cette mauvaise réputation.
Proprio in uno scritto inedito degli ultimi anni, si definisce «il più famoso degli uomini oscuri». Una definizione perfettamente illustrata dalla mostra parigina, che restituisce tutta la complessità  di quel «teatro delle operazioni» immaginato da Debord. Per il quale «la miglior cosa che possa capitare a un’avanguardia è di aver fatto il proprio tempo, nel pieno senso del termine». E per l’autore della Società  dello spettacolo è sicuramente vero.


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