by Sergio Segio | 21 Marzo 2013 7:53
NEW YORK. In questi giorni diverse tormente di neve stanno battendo gli Stati del New England e dei Grandi Laghi, ultimi segnali di un inverno che fatica a terminare e di una primavera che tarda ad arrivare. Che ci sia un cambiamento climatico in corso da anni è un dato di fatto che la grande maggioranza degli studiosi dà ormai per scontato, ma come sempre una facile generalizzazione (tipo “le mezze stagioni non esistono più”) non spiega quello che sta succedendo nella realtà .
Un lungo report del U.S National Climatic Data Center, rilanciato nei giorni scorsi dal Wall Street Journal, ci fornisce risultati sorprendenti: negli ultimi decenni la tendenza della primavera – almeno negli Stati Uniti – è di arrivare prima del solito.
Un risultato che solo apparentemente contraddice i grandi numeri su cui gli scienziati del clima basano i propri studi. Stando alle statistiche più recenti le quattro stagioni reali (non quelle del calendario) oggi sono così divise: la primavera dura 92,76 giorni l’anno, l’inverno 88,99, l’estate 93,65 e l’autunno 89,84 giorni. Ogni anno la primavera si riduce di un minuto a vantaggio dell’estate e l’inverno si accorcia di un minuto e mezzo a vantaggio dell’autunno.
«L’ultima gelata invernale arriva prima, anno dopo anno, e la prima gelata in autunno arriva sempre più tardi», ha spiegato al Wsj Jake F.Weltzin, direttore del Usa National Phenology Center, l’organismo che studia la tempistica degli eventi naturali. Qual è il modo migliore per capire come e quando si passa dall’inverno alla primavera? Per l’U.S. National Climatic Data Center la risposta è semplice: non fidarsi solo dei satelliti e dei grandi numeri ma studiare “sul campo”, osservare le
piante, i fiori e il comportamento degli animali. Perché i satelliti sono in grado di catturare la portata globale del cambio climatico in un intero emisfero, ma per capire veramente cosa sta succedendo localmente (in questo caso negli Stati Uniti), in termini di inquinamento, di sviluppo urbano, di gas responsabili dell’effetto serra, il metodo migliore resta quello dell’occhio nudo.
Fiori e piante sono i “sensori” più sensibili per comprendere al meglio il cambio climatico. Gli studi botanici ci spiegano meglio di ogni altra cosa come la natura stia rispondendo al riscaldamento terrestre, ma sono studi che non possono essere fatti solo in laboratorio o con dati elaborati al computer. Un rapporto della Nasa dimostra come l’occhio umano (in questo caso quello di agricoltori, giardinieri, bird-watchers, naturalisti e animalisti) resti la scelta migliore. Quest’anno “sul campo” hanno studiato duemila specialisti e oltre 15mila volontari.
I risultati non mancano. Gli agricoltori oggi hanno a disposizione circa dieci giorni di lavoro in più all’anno di quanti ne avessero un secolo fa, gli uccelli migratori lasciano i loro luoghi anche con 18 giorni di anticipo, le piante crescono prima del solito, gli animali cambiano atteggiamenti secolari. Basti pensare – come esempio estremo – che nel 1852 i primi fiori di primavera sbocciavano il 15 maggio e l’anno scorso a Chicago –una delle metropoli più fredde degli Stati Uniti – sono fioriti il 25 gennaio. Oppure come nello Stato di Washington, uno dei più freddi in assoluto, gli orsi bruni ogni anno si risveglino anticipatamente dal letargo (che ci sia la neve o meno poco importa).
Cambiamenti che toccano alcune zone, ma non altre, rendendo sempre più complicata una lettura lineare del “climate change”. Basta guardare quanto successo a febbraio negli Stati Uniti. La maggior parte del West ha avuto un clima più secco del normale, gli Stati del Nordest hanno avuto nevicate e tormente fuori dalla norma, nel Sud ha piovuto più del solito, bufere di neve che non si vedevano da decenni hanno colpito gli Stati della “grande prateria”. Dopo un anno in cui la siccità aveva raggiunto un po’ in ogni area record storici. Non vi sono dubbi che il clima stia cambiando, come è ancora tutto da capire e da scoprire.
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