by Sergio Segio | 9 Marzo 2013 7:24
ROMA — Nel Pd il piano A trova tutti concordi. Certo, poi c’è chi ci crede di più, chi di meno e chi non ci crede per niente, ma nessuno ostacolerà il tentativo di Bersani di formare un governo. È sul piano B che le opinioni divergono, anche in modo clamoroso. Ognuno declina la seconda lettera dell’alfabeto in modo diverso.
Il segretario, per il momento, sostiene di non avere subordinate: «Non mi rivolgerò a Grillo, ma ai suoi elettori e ai suoi parlamentari», spiega ai fedelissimi. E con questo obiettivo in testa spera di agganciare nella sua compagine governativa alcune personalità che potrebbero piacere ai «5 stelle», come Stefano Rodotà o il leader di Libertà e Giustizia Gustavo Zagrebelsky. Si vocifera addirittura di un possibile coinvolgimento del magistrato a tutto campo Raffaele Guariniello. È un’operazione dall’esito quanto mai incerto, tant’è vero che lo stesso segretario del Pd ammette che in questo caso la legislatura non durerebbe «più di due anni».
Ma una sicurezza il leader del Partito democratico ce l’ha: non farà un passo indietro per favorire assai più improbabili tentativi sempre targati Pd con Anna Finocchiaro o Rosy Bindi alla testa di un futuribile esecutivo. «Tutte cavolate», taglia corto. Il suo piano B, quindi, resta quello delle elezioni, possibilmente a giugno, il 23 o il 30. Senza cambiare la legge elettorale perché non c’è il tempo, e perché comunque qualsiasi modifica verrebbe vista dai grillini come un’operazione di palazzo per arginare il loro movimento.
Su questa linea il segretario ha il sì dei Giovani turchi, a patto, ovviamente, che sia lui stesso a ricandidarsi. Aspettare oltre, puntare a ottobre, secondo Bersani sarebbe un errore perché si finirebbe solo per incancrenire la situazione. Il leader è convinto che, se si tornasse alle urne, gli elettori del centrosinistra che hanno votato Grillo opterebbero per la governabilità . E in questo senso immagina una coalizione che unisca Sel e Monti. Nessun accordo post elettorale: non c’è più tempo, non è più aria, meglio presentarsi al Paese con una grande coalizione che vuole sconfiggere «i populisti e gli antieuropeisti», ossia Berlusconi e Grillo.
Monti, a dire il vero, non ha detto né «no» né «sì» nell’incontro dell’altro ieri con Bersani. Ma dal suo entourage è filtrata la notizia che il premier potrebbe accettare uno schema del genere solo se a presiedere questa coalizione fosse Matteo Renzi. E su questo punto nel Pd sembrano essere in molti quelli d’accordo con Monti. Gli ex margheritini Letta, Franceschini e Fioroni, per esempio, ma dicono che anche Veltroni non respingerebbe un’ipotesi del genere. In questa fase, però, è difficile per tutti loro uscire allo scoperto, visto che ufficialmente è ancora in piedi il piano A.
Soprattutto, nessuno di questi dirigenti vuole pugnalare il segretario alle spalle. Perciò immaginano un percorso un po’ più lungo, condiviso con il leader: elezioni a ottobre, anche perché a giugno rischia di essere troppo presto per Renzi, con Bersani segretario fino alla scadenza naturale.
Elezioni e poi congresso, insomma, perché nessuno vuole fare fuori il leader, a cui, peraltro, secondo questo schema, verrebbe data l’ultima parola sul suo possibile successore. Magari quel Fabrizio Barca che rassicurerebbe l’ala sinistra del partito.
Non si tratta di fantapolitica, tant’è vero che un uomo lungimirante come Arturo Parisi mette già in guardia Renzi dai rischi di questa operazione: «Se si facesse cooptare subirebbe la sconfitta più grave, quella definitiva». Ma è un consiglio di cui il sindaco di Firenze non sembra aver bisogno: «Il mio messaggio è uno e uno solo: io da quelli lì non mi faccio cooptare».
In sostanza Renzi non intende fare da scialuppa di salvataggio ai maggiorenti del Pd che vedono la terra franare sotto i piedi. E a dire il vero anche l’altro protagonista di questi giochi, ossia Barca, non ha mai detto di sì: anche lui preferisce tenersi lontano dai contorcimenti del Pd, tant’è vero che preferisce non prendere ancora nemmeno la tessera di quel partito. Ma le future evoluzioni della politica italiana potrebbero imporre un cambiamento di rotta sia al ministro per la Coesione territoriale che al sindaco di Firenze.
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