Attenti, a destra c’è il vento del ’94

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In entrambe quelle esperienze, e per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, il consiglio dei ministri non fu più il terminale delle scelte dei partiti, chiamato semplicemente a varare disegni di legge già  concordati dalle rispettive segreterie; scavalcandone le mediazioni e i condizionamenti, entrambi i premier avviarono la prassi di rivolgersi, in Parlamento e nelle Commissioni, direttamente ai singoli parlamentari e, più in generale, ai media e all’opinione pubblica.
Erano indizi preziosi per capire quello che stava succedendo, già  prima di Tangentopoli. L’affievolirsi del ruolo dei partiti e il consolidarsi di un inedito potere costituzionale appannaggio di un «Collegio informale», costituito dal capo dello stato e dai presidenti delle due camere, insieme ai continui sconfinamenti dai propri ambiti istituzionali del consiglio superiore della magistratura, della corte costituzionale e, soprattutto, della presidenza della Repubblica, lasciavano intravedere la trama di un racconto che si sarebbe sviluppato in tutto il ventennio successivo.
Fu Piero Barucci, ministro del Tesoro di entrambi quei governi, ad ammettere, in una sua testimonianza, che una transizione difficile come quella non poteva essere gestita da governi «tecnici»: «Se – egli scrisse – in questo sistema di decisioni non si affaccia prepotentemente la politica, il governo delle cose diviene soltanto tecnica dell’aggiustamento dei problemi nel breve periodo». E più avanti: «Non fummo capaci insomma di trasmettere passione politica…non avemmo… né la voglia, né l’ardire di vivere due anni pieni di dramma, di fede ma anche di possibile eresia».
La Seconda Repubblica cominciava così con due «governi tecnici» che, incalzati dalla svalutazione della lira e dalla battaglia sulle privatizzazioni, smarrirono presto ogni contatto con i sintomi di un malessere sociale allora particolarmente evidente in segnali come i bulloni lanciati contro i sindacalisti durante lo sciopero nazionale del 13 ottobre 1992 o la mobilitazione dei commercianti e degli artigiani contro la «minimum tax». Da notare come allora, nel passaggio da Amato a Ciampi, Achille Occhetto, allora segretario del PdS, auspicasse un «governo eccezionale», presieduto da un’alta personalità  che fosse anche «alta garanzia per l’intero paese». I partiti, secondo Occhetto, avrebbero dovuto compiere un passo indietro anche nella scelta dei ministri mentre il governo che entrava in carica doveva solo elaborare una nuova legge elettorale e governare nel migliore dei modi la congiuntura economica. Con queste premesse, i due governi incassarono dalle sinistre l’accordo sull’abolizione della scala mobile, la svalutazione della lira, due manovre aggiuntive, due leggi finanziarie (per un ammontare complessivo di oltre 170.000 miliardi), l’avvio delle prime privatizzazioni; in cambio della loro ragionevolezza, ottennero di sprofondare nell’allucinante paradosso che, alle elezioni politiche del 27 marzo 1994, consentì all’elettorato di scegliere la destra di Berlusconi come l’unica risposta a Tangentopoli!
L’esperienza dei governi tecnici suggerisce una intrigante simmetria tra l’inizio e quella che potrebbe essere la fine della Seconda Repubblica. Dopo il fallimento del centro destra eletto nel 2008, la scelta di affidare a Mario Monti il governo, insieme alla rinuncia alla soluzione fisiologica di nuove elezioni politiche, ha sottolineato un vero e proprio «commissariamento» di un sistema politico riconosciutosi impotente ad affrontare la crisi e rassegnato a una inevitabile cessione di sovranità .
Ritornando alle analogie con il 1992-1994, c’è da sottolineare come allora a porsi fuori dal sistema dei partiti e a evidenziarne la crisi fu la Lega di Bossi; protagonista e testimone della grande slavina che travolse i partiti politici della Prima Repubblica, nel 1992 la Lega raggiunse l’8,6% alla Camera e l’8,2% al Senato dei voti, replicando questo risultato nel 1994 (l’8,4% dei voti alla Camera). Con queste percentuali inchiodò i partiti al loro fallimento.
Alle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013, il Movimento 5 Stelle ha ottenuto il 25,54% alla Camera (dove è risultato il primo partito) e il 23,79% al Senato. Questo vuol dire che, in venti anni, l’area di quella che ci si ostina a definire l’«antipolitica» è cresciuta di almeno tre volte. Numeri impietosi che certificano un altro fallimento, questa volta in termini numericamente così vistosi da far pensare che la classe politica della Seconda Repubblica possa essere indicata come la peggiore dell’intera storia dell’Italia Repubblicana.


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