by Sergio Segio | 14 Marzo 2013 11:58
La bambina piange, la mamma cerca di calmarla, le passano una pastiglia di sonnifero da farle mandare giù. Non basta, gli uomini cominciano a bisbigliare «deve smettere», una voce dal buio ordina «soffocala o ci farai ammazzare tutti». È quella del marito. La mamma si allontana, continua a cullarla, le preme il palmo della mano sulla bocca. «Sarebbe stato il suo ultimo respiro, è arrivato mio cognato e mi ha fermata: non ti lascerò ucciderla».
Adesso Rim gattona nella casa dove la famiglia si è accampata dall’altra parte del confine, sta appiccicata alla madre che non riesce a dimenticare quella decisione, la scelta impossibile tra la vita della figlia e quella di cinquecento persone. «Il senso di colpa non mi passerà mai», dice Umm Ali al giornale britannico Sunday Times che ne ha raccontato la tragedia.
I profughi siriani sono diventati settimana scorsa un milione, la metà di loro bambini. Un’altra madre è il simbolo contabile della catastrofe, Bushra (19 anni e due figli) ha varcato la frontiera e ha atteso in fila per dare il suo nome all’ufficio delle Nazioni Unite che prova ad assistere gli esuli sparsi tra Turchia, Giordania, Libano, Iraq. È lei la milionesima disperata, i numeri per esprimere la distruzione di un Paese: la rivolta contro Bashar Assad è cominciata due anni fa, il 15 marzo, tra le strade di Deraa. All’inizio è una storia di ragazzini, di quella che i loro genitori chiamano «una spacconata»: scrivere sui muri della scuola slogan contro il dittatore che sembra intoccabile. Sono le stesse parole che hanno sentito scandire nelle manifestazioni in Tunisia, Egitto, Libia e rilanciate dai video su Youtube. Hanno tredici anni, il più giovane undici.
I gerarchi del regime non si impietosiscono, in quindici vengono fermati e incarcerati, il governatore della provincia — campi di pomodoro e campus universitari, a sud verso la Giordania — non permette ai genitori di vederli. Il primo corteo è piccolo, parte dalla moschea Omar Ibn Al Khattab dopo la preghiera di mezzogiorno. Tre giorni dopo, il venerdì, le persone sono già tremila, chiedono il rilascio dei bambini, gli agenti sparano lacrimogeni e caricano con i bastoni.
Questa volta il governatore prova a dialogare, qualche ragazzino viene scarcerato, racconta di essere stato torturato. La protesta non si ferma, l’esercito circonda la città , arriva la Guardia repubblicana, i soldati d’élite comandati da Maher, il fratello minore del presidente. Sono scelti tra gli alauiti, la setta minoritaria cui appartiene la famiglia Assad. A Deraa e in quasi tutte le città del Paese la maggioranza è sunnita, è su di loro che le truppe speciali sparano, 150 morti nelle prime settimane della rivolta. Due anni dopo le vittime sono oltre 70 mila. Deraa, Homs, Hama, Aleppo, la stessa capitale Damasco sono diventate zone di guerra. Il regime bombarda i quartieri con l’aviazione e i missili Scud, le frange più estreme tra i ribelli diffondono il terrore con le autobombe. I morti adesso sono 5 mila al mese, 3 milioni di edifici sono stati danneggiati, 80 mila persone non hanno più una casa e dormono nei parchi o nelle grotte, 2 milioni hanno bisogno di assistenza. Sono quelli che le organizzazioni umanitarie chiamano rifugiati interni, non hanno avuto la forza o il coraggio di camminare per giorni, evitando i posti di blocco dell’esercito, per raggiungere un valico.
Con 5 mila caduti al mese — rileva Save the Children nel nuovo rapporto sulla situazione in Siria — un bambino su tre ha perso un genitore o un fratello, calcola uno studio dell’università turca Bahcesehir. Come Ibrahim che a 9 anni ha visto morire la madre, i due fratelli più grandi e se ne sente pure responsabile: «Quando la notte sentivo le esplosioni, mi svegliavo e uscivo per capire da dove provenissero gli scoppi. Rientravo spaventato e ripetevo ai miei fratelli che era più sicuro stare dentro. Una bomba ha colpito la casa e sono morti sotto le macerie».
Le madri non sono più in grado di allattare, le coltivazioni abbandonate, è difficile per i rifornimenti raggiungere le città . «I livelli di malnutrizione infantile crescono — avverte Save the Children —. Secondo le Nazioni Unite, i siriani che hanno bisogno di aiuti alimentari sono 2 milioni e mezzo». Le scuole danneggiate sono 2 mila, ad Aleppo i medici attivi erano 5.000 e sono scesi a 36, tentare di raggiungerli può essere peggio che restare malati. «La prima linea nelle città — scrivono gli autori del dossier — cambia in continuazione, le famiglie non sanno quali siano le strade sicure, non possono prevedere se la zona dove si sono accampati sarà ancora protetta domani».
Faris, padre di sei bambini, racconta: «Quello per cui lottavamo di più era il cibo, il pane era sparito perché l’esercito fermava e rimandava indietro i camion mandati dai forni. I soldati hanno sparato anche ai serbatoi dell’acqua sui tetti per lasciarci morire di sete».
I bimbi disegnano ormai solo la guerra, alcuni l’hanno vissuta in prima linea. «Tutti e due i gruppi rivali usano minorenni come guardie, informatori, portalettere, anche combattenti. A volte vengono arruolati con la forza: ci è stato segnalato il caso di bambini di 8 anni usati come scudi umani».
Dice Hamma, madre di Sham: «Mia figlia ha un anno e sette mesi, sapete qual è la prima parola che ha pronunciato? Enfijar, esplosione».
Davide Frattini
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