2003-2013 La guerra che non è mai finita
Ero a Baghdad da più di un mese. Avevo manifestato con gli iracheni il 15 febbraio 2003 mentre tutti i pacifisti del mondo si mobilitavano contro la guerra in Iraq. Ricordate la seconda potenza mondiale? Così l’aveva definita il New York Times. Una potenza che non era riuscita ad evitare la guerra. La sconfitta che è costata cara al movimento pacifista.
Ero arrivata a Baghdad con un visto di dieci giorni insieme a una delegazione di Un ponte per… , ma il mio obiettivo era quello di rimanere, cercando tutti i modi per farlo. Non era stato facile, ma alla fine ci ero riuscita e il 19 marzo ero ancora lì, anzi dopo molti spostamenti ero riuscita ad avere una stanza al mitico hotel Rashid. Ma in vista dell’ultimatum – scadeva alle 4.15 del 20 marzo – la maggior parte dei giornalisti si era spostata sull’altra riva del Tigri, più sicura. Una psicosi collettiva aveva creato il fuggi fuggi alla ricerca del luogo più sicuro. Il Rashid poteva essere un obiettivo da colpire per i suoi bunker e poi si trovava in mezzo ai ministeri che sicuramente sarebbero stati colpiti. Ma un gruppetto di “irriducibili” – quattro italiani, io compresa, due franco-libanesi, otto spagnoli e un fotografo giapponese – era rimasto a presidiare l’albergo, con l’illusione che così gli americani non avrebbero potuto occuparlo.
L’hotel costruito dagli svedesi aveva una struttura solida, l’avremmo verificato nei giorni successivi quando i bombardamenti incendiavano tutti gli edifici che ci circondavano e lo spostamento d’aria faceva arrotondare le vetrate della sala da pranzo che però non si spezzavano.
Gli inservienti dell’hotel ci erano grati per essere rimasti con loro, l’attesa era spasmodica, la musica classica di sottofondo lasciava presagire il peggio, l’unico segno di vita erano i telefoni che continuavano a squillare. Da ogni parte del mondo volevano sapere cosa stava succedendo, come si viveva l’attesa, e si rivolgevano all’hotel dei giornalisti, dove di giornalisti ne erano rimasti ben pochi e soprattutto non sapevamo nulla di quello che stava succedendo. La rete Internet era stata interrotta.
Avevamo passato la notte – una notte rischiarata dalla luna – bivaccando nella hall, era inutile scendere nei bunker: la guerra non era ancora cominciata e poi volevamo vedere come sarebbe iniziata. La luna stava scomparendo alla luce dell’alba, ci eravamo convinti che con il chiaro non potevano iniziare i bombardamenti, quando i telefoni hanno cominciato a suonare all’impazzata. La notizia arriva durante una intervista con una tv australiana: gli F16 sono partiti, la guerra di Bush è cominciata. Non volevamo crederci, stavamo per cedere alla stanchezza quando l’ululare lugubre e inconfondibile delle sirene annunciava l’allarme.
Alle 5.34 missili Tomahawk e una bomba antibunker da una tonnellata colpivano la caserma al Rashid a Zafrania. Iniziava così una guerra che ancora continua. Sono passati dieci anni, l’operazione Iraqi freedom ha lasciato sul terreno centinaia di migliaia di vittime, le immagini terribili delle torture nel carcere di Abu Ghraib, gli effetti tremendi (morti, malformazioni, malattie, tumori) dell’uso di armi chimiche sulla popolazione di Falluja, mentre ancora si manifestavano gli effetti dell’uso di uranio impoverito della prima guerra del Golfo (1991). L’invasione e l’occupazione guidata dagli americani ha scatenato una divisione tra le varie componenti etnico-religiose dalle conseguenze incalcolabili, che continuano ad alimentare i massacri quotidiani. Gli americani (preceduti dagli altri contingenti) si sono ritirati nel 2011 ma sono rimasti migliaia di mercenari.
Un dittatore è stato cacciato – o sarebbe meglio dire che la vendetta si è consumata secondo un copione degno di un film dell’orrore – ma un altro lo ha sostituito: Nouri al Maliki viene chiamato il «nuovo dittatore». Il potere sciita si è sostituito a quello sunnita, ma come accadeva prima è solo una parte della comunità a godere dei privilegi. I metodi sono quelli di sempre: repressione, violazione dei diritti, censura sulla stampa e soprattutto corruzione. Le discriminazioni tra le varie componenti della società irachena mantengono una forte tensione soprattutto nelle zone a popolazione mista e ricche di petrolio come Kirkuk. Il petrolio alimenta anche lo scontro tra il governo autonomo kurdo e quello centrale.
Nonostante tutti i problemi – sicurezza, disoccupazione, etc. – la popolazione si è ripresa la vita. I giovani hanno anche tentato una rivolta sull’onda della primavera araba, ma la repressione l’ha stroncata.
Il paese subisce un forte controllo iraniano, il regime sciita di Baghdad rappresenta infatti l’anello di congiunzione tra Tehran e Damasco, finché al potere ci sarà Assad. Il crollo del regime alauita (e il passaggio del potere ai sunniti) farebbe saltare l’equilibrio della regione con forti ripercussioni sull’Iraq.
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