Vana ricerca del buon governo

by Sergio Segio | 2 Febbraio 2013 8:11

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Una bella lezione di umiltà  ci dà  Carlo Galli con questo libro: Sinistra, per il lavoro, per la democrazia (Mondadori, pp. 266, euro 17,50, disponibile anche in ebook). È un libro umile non perché semplificato in ossequio ai militanti democratici o evasivo rispetto alle ragioni elettorali che lo situano ma perché qui un intellettuale di grande spessore vuole sperimentare il suo sapere nella lotta politica e metterlo al servizio di una parte. Senza voler prendere in giro nessuno, direi, sulle orme di Hadot e Foucault, che qui ci si trova dinnanzi ad un vero e proprio «esercizio spirituale» che si colloca nella miglior tradizione del Partito comunista italiano. Al di là  di questo, il libro non ha nulla di «comunista» se non una piccola (ma importantissima) «derivazione».
Sono cinque capitoli di fattura diversa. Il primo e il secondo sono saggi di uno storico del pensiero politico. Alla fine del Novecento, egli si interroga su quali siano state le figure specifiche e le diverse linee del pensiero politico della sinistra, in quel secolo: vi si scontrano il razionalismo democratico, la dialettica progressista e socialista ed infine il pensiero negativo. Quest’ultimo scopre nella filosofia di Nietzsche il suo dispositivo – scettico e decostruttivo riguardo alla consistenza giuridica dello Stato, effettualmente aperto alla contingenza dei rapporti di forza che i movimenti politici definiscono, radicalmente capace di decisione e di normatività . Nell’avvicinarsi alle esperienze politiche della sinistra, Galli si appoggia così a quella tradizione dell’«autonomia del politico», nell’affermazione della quale il primo operaismo si distinse dall’esperienze delle lotte – altrimenti comuniste – dell’«autonomia di classe». Fuor di polemiche passate, sono oggi d’accordo con questa assunzione di un «politico» privo di fondamento per scrutare la storia ideologica del Pci: parlamentare ed istituzionale, essa si è svolta su questo livello ed è vero che all’interno del campo filosovietico, c’è stata un’evoluzione, certa, dal razionalismo originario del pensiero dell’emancipazione al dialettismo dell’etica rivoluzionaria della liberazione, fino al niceanesimo di un’accettazione dei limiti dell’agire razionale e di una svalutazione di ogni finalità  ideologica. Una volta si chiamava Termidoro: è termine da evitare perché, a sinistra, ingiurioso; ma è vero che in questo modo il pensiero del Pci, perdendo la dimensione temporale del progetto di radicale trasformazione, si accoccola nello spazio riformistico e costituzionale – dove man mano diviene sempre più «democratico».
Le rivoluzioni del Novecento
Galli inserisce a questo punto un’analisi delle «quattro rivoluzioni del novecento»: la rivoluzione comunista, quella del fascismo, quella dello Stato sociale e infine quella del neoliberalismo. Il Pci è stato drammaticamente dentro le prime due, si è accomodato alla proposta keynesiana e newdealistica, ed è stato sconfitto nella quarta: ora deve fare tesoro di questa sconfitta, subita dal neoliberalismo, adattarsi ad essa e scontrarsi con gli equilibri da quella costituiti, rompendoli, non per modificare il sistema ma per ridefinirne la consistenza. Di nuovo Galli ricorre qui (come altri autori di sinistra, Gallino in testa) agli schemi operaisti della «composizione sociale di classe». È contestabile tuttavia che quel metodo (come pretende Galli) permetta di proiettare i risultati dell’analisi politica su uno schermo categoriale assai oggettivo – di produrre cioè un riferimento statico della «parte» rispetto al «tutto». Non si tratterà  invece di considerare la parte e il tutto come sempre relazionati, non perché la parte voglia o possa costituire il tutto ma perché il tutto non esisterebbe senza quella parte?
Nei capitoli 3 e 4 si entra nel vivo del discorso di Galli. Egli si chiede come nel secondo dopoguerra il Pci sia riuscito a diventare l’intera sinistra, a rappresentare la Sinistra. Vi è riuscito con un saggio uso di «doppiezza» politica. Come l’ha fatta funzionare il Pci? Positivamente, prima, per resistere e gestire la propria forza popolare; per espandersi anche dinnanzi alla conventio ad excludendum che nel periodo della guerra fredda gli era stata decretata contro; poi, dopo l’89, nel riuscire a trasformare la crisi e la perdita di identità  in una nuova forza che mantiene il ruolo di sinistra e lo adegua alle nuove condizioni. Ma se Togliatti fa scivolare la sua doppiezza (frontismo democratico/insurrezione e dittatura comunista) sempre più verso la definizione istituzionale di un «partito di lotta e di governo» – di modo che i contenuti mutino (e come mutano!) mentre la doppiezza permane – non altrettanto avviene in seguito.
Rottura con i movimenti
Lungi da un consistere lineare di discontinuità  mascherate da continuità , il niceanesimo del Pci, dopo la morte di Togliatti, si è desistito ed ha subito qualche grave deformazione. Ha certamente ragione Galli quando fa questi due esempi. Primo: l’incomprensione dei movimenti nel decennio ’68-’77 e le rotture che ne derivarono. La «doppiezza» avrebbe dovuto permettere di assorbire i movimenti nella strategia del partito, ciò invece non avvenne. E questa incomprensione aprì, da un lato, al cosiddetto «terrorismo», dall’altro condusse al termine della fase espansiva della democrazia italiana. Quella rottura introdusse «un aut aut pernicioso fra partito e movimenti, fra «tutto» democratico declinato come accettazione sostanziale del presente, e «parte» (parzialità ) lasciata ai movimenti, che la trasformarono in rabbia e in antagonismo». Secondo: la Bolognina, ecco la stazione finale. Dove non scompare solo il nome comunista ma si abbandonava la singolarità  di un’esperienza secolare.
È comunque solo a questo punto che si può cominciare a ricostruire la sinistra: da questa negatività  riconosciuta. La funzione di quest’operazione consiste innanzitutto nell’opporre la politica all’antipolitica. E poiché quelle sconfitte, di cui sopra, hanno frammentato a dismisura la sinistra, la si deve ricomporre. «La critica del Tutto omologante e differenziante può avvenire a cominciare dalle Parti: tanto dai movimenti quanto dai partiti rinnovati». Lo scenario italiano comprende gran numero di movimenti (ecologici, liberal, benecomunisti, ecc.). La valutazione che se ne fa è probabilistica: ricomporli arricchirebbe la sinistra. C’è un grande spazio sul quale svolgere un’energica iniziativa. Così agendo, l’antipolitica potrebbe essere abbattuta. Si badi bene, spesso Galli ci ricorda che le forze attratte dall’antipolitica non hanno nulla di tale: divengono antipolitiche semplicemente perché la sinistra è incapace di leggere questi movimenti.
Politica dell’eguaglianza
Ma se il partito ha tutto l’interesse a ricomporre la sinistra, perché mai i movimenti dovrebbero ritornare al partito? Perché mai il partito dovrebbe presentarsi come riferimento dei movimenti? Per evitare di rispondere brutalmente – perché c’è il porcellum, perché il sistema è bipolare; e perché senza rappresentanza i movimenti divengono pericolosi ed impotenti – bisogna spiegare infine quali siano le figure, la soggettività  ed il programma della sinistra: e qui Galli si trova a svolgere il compito più difficile. Il capitolo V è intitolato «La politica del lavoro, il lavoro della politica». Se al posto della virgola mettiamo un «=» la cosa diventa non più retorica ma spaventosamente effettuale: solo la politica – e cioè quel segno di eguaglianza – mette assieme capitale e forza-lavoro, società  e classe operaia. Marx ha spiegato più volte che il lavoro è concetto duplice: lavoro vivo e capitale variabile – che vuol dire classe operaia e lavoro come valore d’uso appropriato, sfruttato dal capitale. Che solo la politica della sinistra possa tenerli uniti, senza che diventino antagonisti, può essere vero. Ma a quale prezzo?
La modernità  non è liquida
Galli riconosce al Partito Democratico il superamento della fondamentale doppiezza di un tempo, di essere dunque direttamente interprete di una politica riformista – ora rinnovata da una fertile accettazione dell’egemonia capitalista. Ma il doppio, l’antagonismo si ripropongono nella redistribuzione dei redditi e/o dei profitti dello sviluppo. E si ripropongono in maniera ancor più complicata di prima, di quanto cioè avveniva nel periodo newdealistico, perché non sono più i sindacati e neppure una ristretta forza-lavoro organizzata a rappresentare la «parte»; ma la rappresentano le moltitudini dei lavoratori, strutture plurali e dense di singolarità  che non solo sono sfruttate ma, almeno nella produzione cognitiva, già  si sono riappropriate di frammenti di capitale fisso. Questa nostra società  è ormai molto poco «liquida» e conosce un’intellettualità  ricca di risorse ed immiserita nella sua condizione sociale – un nuovo proletariato. La «doppiezza» di Togliatti consisteva nella soppressione politica di ogni antagonismo reale ma allo stesso tempo esaltava la missione egemonica della classe operaia. Galli non sembra essersi accorto che il Pd non può più farlo. Mica si può aver di meglio di quello che concordiamo con i padroni!, esclama: ad esempio, di mettere in discussione la categoria del profitto, «un’ipotesi francamente troppo ambiziosa nell’immediato». Qui la dimensione niceana della politica si chiude in uno spazio limitato, quello del «conveniente», del «consensuale», e finisce per mostrarci una «parte» che ha ormai dimenticato di collocarsi conflittualmente in un «tutto».
Il patto impossibile
È qui che vorrei ritornare su quella «deviazione» segnalata all’inizio. Essa risalta quando, nostalgicamente, Galli ci parla di «politica del lavoro/lavoro della politica» in Emilia – dagli anni della ricostruzione fino al «compromesso storico». Ebbene, che cosa fece di quella regione un modello di «comunismo all’italiana»? Il patto fra produttori, impegnato in una pratica di «democrazia progressiva». È ancora vero? No. Da troppo tempo non c’è più. È ancora possibile? Galli lo promette a nome della sinistra. Ma può esserci in una società  dove il lavoro precario è ormai consolidato in una diseguaglianza di redditi enorme – questa sì, progressiva – bene, è immaginabile una siffatta ricostruzione, una seconda primavera della «differenza emiliana»? Ecco una bella utopia nostalgica, preteso programma progressivo, in effetti regressivo, da realizzare attraverso la vittoria elettorale della sinistra.
Qui finisce il libro. Termina con un lungo appello all’attuazione di quell’ideologia del lavoro che avrebbe dovuto reggere la Costituzione del ’48. Pensare che quella Costituzione possa essere realizzata oggi dopo circa sessantacinque anni, e realizzata secondo i sogni, non dei costituenti, ma dei resistenti che, con le armi in mano, volevano significasse quello che oggi Galli, completamente disarmato e disilluso, ci narra – è ingenuo. Diremmo, anche ingeneroso verso la storia del Pci, se non sapessimo che in questo caso è la generosità  che tradisce l’intelligenza. Ma Galli corregge subito il tiro: «la posta in gioco, per la sinistra, è la capacità  di governare democraticamente i processi economici, obiettivo per il quale è necessario ricostruire le condizioni del governo stesso, di rifondare lo spazio pubblico, di operare nell’emergenza in vista di un nuovo ordine». Questo esprime l’esigenza di mettere in atto una riforma generale del sistema democratico, di andare al di là  (attraverso l’esercizio di un potere costituente e, comunque, attrezzati di un vigoroso pragmatismo) di una costituzione ormai impregnata di usi inetti e corrotti – necessariamente, perché essa non corrisponde più alla materialità  degli attuali rapporti sociali. Questo per dire, solfeggiando in filosofia, che forse quella dimensione niceana, quella decisione sulle contingenze, è insufficiente. La realtà  è ridiventata dura, Nietzsche orami si inzucca nelle barbarie di una dialettica insolubile, l’aforisma non è più lecito, la contingenza libera probabilmente dall’ideologia ma ci schiaccia nell’impossibilità  dell’opera. Dovremo allora ripensare alla dialettica dell’oltrepassamento, meglio ancora, a restaurare il razionalismo dell’emancipazione – insomma, un «ritorno alle origini» che, nello spirito machiavellico, assomiglia assai poco al pacioso, comunque defunto, progressismo emiliano. Avendo voluto passare impunemente da Carl Schmitt al Pd, Galli dovrà  ora accorgersi che non c’è «porto franco» che permetta questo baratto.

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I frammenti del neoliberismo

L’ordine neoliberale è andato in frantumi, ma sono in molti a prodigarsi per ricomporlo. Tutta la discussione pubblica mainstream si snoda attorno al nodo di come garantire una uscita dalla crisi in continuità  con il recente passato. Ciò che viene ostinatamente negato è che il neoliberismo non si è presentato solo come un particolare modo di produzione, ma anche come una forma politica che ha ridisegnato il ruolo delle Stato, dei partiti, del sindacato. Già  agli albori del neoliberismo Michel Foucault aveva indicato, in alcuni seminari al Collège de France nel 1978-1979, l’attitudine costituente della controrivoluzione neoliberale («Nascita della biopolitica», Feltrinelli), ma la griglia analitica del filosofo francese è stata spesso ignorata. A oltre 40 anni di distanza, le tesi di Foucault hanno invece un ampio credito, sebbene appannaggio di alcune minoranze intellettuali. Recentemente Maurizio Lazzarato le ha riprese per analizzare la crisi del neoliberismo per quanta rigurda la forma-stato. Dopo aver indagato «L’uomo indebitato», la casa editrice ombre corte, ha mandato in stampa «Il governo delle diseguaglianze» (pp. 130, euro 12), accurata analisi della funzioni di controllo sulla vita sociale assunte dallo Stato.

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