Un tuffo negli atelier della produzione

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C’è una questione innominata in questa campagna elettorale. Può essere definita con molti termini. Il più noto è precarietà ; i più esotici sono «lavoratori della conoscenza» o «economia della conoscenza». Già  la scelta della parola indica una scelta di campo, anzi definisce un campo teorico e politico ben preciso. Precarietà  segnala, ad esempio, che i rapporti tra capitale e lavoro vivo sono contraddistinti da forme di assoggettamento e sfruttamento che possono essere invece ricondotte agli esordi della rivoluzione industriale: giornata di lavoro dilatata all’inverosimile, relazioni gerarchiche che possono ricordare il lavoro servile. Ma presentano anche elementi inediti, che rompono le barriere che hanno scandito la divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Se il lavoro è sans phrase, occorre anche sottolineare che fattori costitutivi della prestazione lavorativa è la «messa in campo» di sapere, conoscenza en general, capacità  relazionale. È questa compresenza di antico e ipermoderno che caratterizza il lavoro vivo contemporaneo. Ed è questo che è «sotto traccia» in questa campagna elettorale, anche se va detto che c’è chi la agita nelle forme insopportabili del giustizialismo e di un movimentismo relegato a una opinione pubblica che esprime la sua presa di parola attraverso il click sul «mi piace» nei social network.
Senza indugiare più di tanto: è Beppe Grillo e il suo movimento che hanno fatto della condizione lavorativa contemporanea, ridotta a miseria del presente, il proprio cavallo di battaglia.
Significativo è il fatto che il suo tour elettorale abbia individuato nel nord-est e nel nord-ovest le aree geografiche dove il tema del lavoro abbia avuto così rilevanza. Si tratta delle due aree geografiche dove la precarietà  è da molti anni l’orizzonte inaggirabile dei rapporti tra capitale e lavoro vivo. Sia ben chiaro, Grillo parla di lotta ai privilegi, ai poteri forti in nome di una immaginaria «comunità  dei produttori»: una retorica usata dai leghisti in passato. Ma è un dato di fatto che la «traduzione» italiana dell’economia della conoscenza – altra parola chiave usata per indicare le trasformazioni del capitalismo – abbia nel «settentrione» alcune delle sue radici.
Il nodo non è però sciolto dalla retorica grillina. Sono in tanti a provarci. Milano è la capitale anche della May Day, cioè dell’appuntamento del precariato diffuso. È anche la città  che ha visto ricercatori e attivisti discutere, fare inchiesta sul precariato e i lavoratori autonomi di seconda e terza generazione (i «Quaderni di San Precario», ad esempio). In questi giorni alla mole dei materiali «critici» prodotti su questi temi si è aggiunto un libro che ha come sponsor il sindacato dei lavoratori della conoscenza, categoria legata alla Cgil. Si tratta de Trasformazioni del lavoro nell’economia della conoscenza (Edizioni della conoscenza), volume collettivo curato da Loris Caruso che raccoglie contributi tra loro eterogenei, ma accomunati dalla volontà  di svelare l’arcano dei contemporanei atelier e dei loft della produzione.
È interessante notare come tutti i saggi del libro stabiliscono genealogie teoriche tra loro molto diverse. C’è il riferimento a Enzo Rullani, ma anche André Gorz, Manuel Castells, Toni Negri, Sergio Bologna. Ma al di là  delle costellazioni teoriche che presiedono i contributi del libro emergono alcuni elementi comuni. In primo luogo, l’intreccio tra finanza e la cosiddetta economia reale. Carlo Formenti ne sottolinea il connubio, anche se dedica gran parte del suo scritto a criticare quanti hanno visto nell’economia della conoscenza una sorta di superamento delle forme di sfruttamento che da sempre caratterizza il capitalismo. Nell’economia della conoscenza, non c’è nulla di liberatorio, ma solo fenomeni diversificati e eterogenei del rapporto capitalistico di produzione.
Nel volume sono snocciolate come in un rosario tutte le manifestazioni di trasformazioni che di progressivo hanno ben poco. Ci sono i lavoratori dell’industria editoriale (Simona Incerto e Alessia Ballinari), i precari dell’università , dello spettacolo, della pubblicità  (Dilva Giannelli), della rete (Sergio Bellucci), la cosiddetta femminilizzazione del lavoro (Andrea Fumagalli).
Ci sono infine due domande che tornano continuamente nei contributi. La prima è l’organizzazione del lavoro precario (Francesco Sinopoli e Ivana Brunato si concentrano sul ruolo del sindacato), la seconda riguarda invece come modificare lo stato sociale (Peppe Allegri). Le risposte sono parziali e rinviano alle mobilitazioni, meglio alle forme di conflitto che il lavoro precario ha espresso. Netta è invece la preferenza per il reddito di cittadinanza, cioè un diritto universale per chi lavora e anche per chi non lavoro. Piccola avvertenza: anche Beppe Grillo ne parla nelle sue performance elettorali. Occorre però stare attenti. Il leader del Movimento 5 stelle ne parla come un compassionevole sussidio di disoccupazione. L’esatto contrario di quanto sostengono alcuni i gruppi organizzati dei precari.


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