by Sergio Segio | 7 Febbraio 2013 7:53
È possibile che tra le cause della drastica diminuzione delle iscrizioni all’università ci sia anche, come dichiarato dal ministro Profumo, lo sgonfiamento della bolla delle re-iscrizioni, ovvero di coloro che, già iscritti alla vecchia laurea quadriennale negli anni scorsi sono passati alla triennale. Possiamo anche mettere in conto un certo calo demografico nella coorte dell’età interessata. Forse, visto l’aumento delle tasse universitarie per gli studenti fuori corso, c’è stata anche una riduzione degli iscritti tra coloro che facevano una iscrizione di prova, ma poi non davano nessun esame.
Sgonfiamento della bolla e calo demografico, tuttavia, sono solo una parte del fenomeno. I modi e le caratteristiche di questa drastica diminuzione delle iscrizioni in un periodo di domanda di lavoro debole e alta disoccupazione giovanile costituiscono un segnale di problemi strutturali della nostra università e del loro intreccio con i meccanismi di trasmissione fra le generazioni di una disuguaglianza tra le più forti nelle democrazie sviluppate. Sono, infatti, soprattutto i diplomati degli istituti tecnici che hanno rallentato le iscrizioni alle lauree triennali, non perché attratti da una offerta di lavoro attraente sul piano economico, come avveniva in alcune aree del Nord-Est ancora negli anni Ottanta, quando molti giovani dei ceti operai e artigiani sceglievano un reddito subito, piuttosto che imbarcarsi in un processo formativo lungo che avrebbe “pagato”, in termini economici, molto più tardi.
Piuttosto, questi giovani, che pure si trovano ad avere diplomi professionali non facilmente spendibili su un mercato del lavoro in affanno, nemmeno riescono a vedere nella laurea triennale un investimento valido, né sul piano della maturazione culturale né su quello professionale. Il fallimento della riforma tre più due è certificata dal cumularsi di aspetti negativi: l’ostilità e diffidenza con cui è spesso considerata dai datori di lavoro, inducendo a pensare che per avere qualche chance occorra proseguire nel biennio; la ridotta percentuale di chi termina nei tempi previsti (uno degli obiettivi principali della riforma), a motivo non solo dell’impegno insufficiente da parte degli studenti, ma di corsi farraginosi, spesso con una moltiplicazione del numero degli esami, con l’aggravante di piani di studio costantemente terremotati da circolari, riforme e controriforme, che fanno perdere tempo a docenti stressati e demotivati, disorientano gli studenti e pongono questioni di opportunità a genitori che comunque devono farsi carico sia del mantenimento che delle tasse universitarie.
Può non lasciarsi scoraggiare solo chi ha una fortissima motivazione personale, e/o è sostenuto da un contesto famigliare e culturale che fornisce chiavi di lettura che aiutino a muoversi in questa palude e consente di integrare il curriculum con esperienze all’estero o altro. Sono poche le risorse disponibili per orientamento e tutoraggio non puramente nominali. Probabilmente sono proprio coloro che ne trarrebbero maggior vantaggio ad autoescludersi per mancanza di informazioni, o inadeguate competenze relazionali per pretenderli e trarne frutto.
Così, mentre chi prosegue gli studi, pur rischiando di trovarsi comunque disoccupato o sottopagato, ha comunque occasioni di maturazione personale e di verifica durante il percorso delle proprie opzioni e preferenze, chi non li intraprende neppure rischia di rimanere con un pugno di mosche: sul piano delle competenze professionali e su quello della formazione culturale. Anzi, rischia di consolidarsi nell’idea che o gli studi universitari hanno un immediato esito sul mercato del lavoro o non hanno alcun valore.
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