Tra le sponde atlantiche il libero scambio conviene a imprese e consumatori
Si tratta di rilanciare l’integrazione tra Usa e Europa. È arrivata subito la risposta del presidente della Commissione europea Manuel Barroso. Parlando a un convegno, Barroso ha detto che le due parti dovrebbero avviare i colloqui nella prima metà dell’anno. Praticamente domani, nel mondo della diplomazia.
Facile a dirsi, difficile a farsi. Non si può rilanciare il mercato comune transatlantico riducendo i dazi e le barriere tariffarie. Per una ragione elementare: decenni di integrazione hanno già quasi azzerato i dazi che oggi non raggiungono il 3 per cento del valore delle importazioni tra Usa e America. Piuttosto, però, si possono ridurre eccome i mille ostacoli non tariffari agli scambi che oggi frenano sia il commercio di beni che quello di servizi come anche gli investimenti delle multinazionali tra i due lati dell’Atlantico. È a causa delle dispute commerciali sul contenuto di ormoni o sulla mucca pazza che l’import/export di carni bovine tra Europa e America è stato a lungo inferiore al suo potenziale. Simili considerazioni valgono per l’export di roquefort e mozzarella di bufala in America e per l’ingresso delle società di servizi americane in Europa. Molti di questi ostacoli riguardano temi con un risvolto etico su cui i governi hanno spesso una forte delega a non fare compromessi. Sindacati, ambientalisti, piccoli imprenditori con i loro prodotti tipici: la lista di chi vuole preservare le identità è più che mai affollata, specie in tempi di crisi. In un modo o nell’altro Europa e Usa si fanno una guerra nascosta con una selva di regole per difendere i produttori di beni e servizi nazionali. Facendone però spesso pagare il conto agli 850 milioni di consumatori. E mantenendo le vendite effettive dei prodotti tipici che davvero valgono ben al di sotto del loro potenziale. In ogni caso, spesso finendo per soccombere alla concorrenza cinese, in un gioco a somma negativa per Europa e America.
Tutto questo potrebbe cambiare di segno, con l’accordo di libero scambio e investimento tra Europa e Stati Uniti. La sfida non è facile perché il libero scambio è al suo minimo di popolarità in un mondo sempre più dominato da guerre valutarie e commerciali. In Europa il rallentamento generalizzato e la pesante recessione dei paesi del Sud suggerisce di rinviare accordi commerciali ad un futuro indefinito. Ma l’economia mondiale è già rimasta negli anni Trenta sotto il peso del protezionismo. E poi oggi Europa e Usa insieme rappresentano ancora la metà del Pil del mondo. È un mercato che, in assenza di novità , oggi e nei prossimi anni rischia di continuare a languire sotto i colpi dell’inevitabile rigore fiscale ma che invece potrebbe trovare nuovo impulso da un rinnovato sforzo di integrazione che crei export, import, investimento e lavoro. Così da restituire all’Oceano Atlantico il ruolo di ombelico della crescita economica che negli ultimi decenni è invece finito, spinto dalla demografia, nell’altro oceano, il Pacifico, che separa (o unisce) l’Asia emergente e l’America.
Il presidente Obama non è solo nel combattere questa sfida. In Europa oggi ha parlato per primo Barroso, e poi uno alla volta hanno detto il loro sì i leader nazionali. Hanno fatto bene. Un patto transatlantico dell’Europa con l’America sarebbe un modo pratico per ricordare ai cittadini europei che l’Europa non è solo un vincolo di bilancio che obbliga a costose rinunce sociali ma anche un progetto comune che crea nuovi mercati di sbocco e nuove partnership per la creazione di ricchezza, oltre che migliori opportunità di consumo per le famiglie. Chi a destra e a sinistra in Italia pensa di riscrivere il Fiscal Compact dopo le elezioni farebbe forse meglio ad attrezzarsi per raccogliere e sottoscrivere la sfida transatlantica di Obama.
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