STORIA DEL PENSIERO SENZA LA PERSONA

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C’è qualcosa di enigmatico e di urtante – che cozza inevitabilmente col senso comune – nello straordinario frammento di Simone Weil La persona e il sacro, adesso edito da Adelphi, a cura di Maria Concetta Sala, con una postfazione di Giancarlo Gaeta intitolata Il passaggio nell’impersonale.
La questione è proprio quella racchiusa in quest’ultimo termine. Cosa è l’impersonale e in che senso interpella il pensiero? In quali scaturigini affonda e in quale direzione muove? Per rispondere a queste domande bisogna partire dalla tesi più radicale avanzata dalla Weil con il coraggio che le era proprio. Appena prima della fine della guerra, nel momento in cui più forte soffiava il vento del personalismo, rilanciato dagli interventi di Mounier e di Maritain, subito recepiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, Simone, solitariamente, afferma che «la nozione di diritto, proprio per la sua mediocrità , trascina naturalmente al suo seguito quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali. È posto a questo livello». Concludendo che «ciò che è sacro, lungi dall’essere la persona, è quello che in un essere umano è impersonale ».
Cosa voleva dire? Come osava sfidare il più potente totem della cultura democratica? Per capirlo bisogna leggere le pagine che, non solo in questo testo, aveva dedicato al diritto romano e alla funzione escludente che in esso giocava la categoria di persona. Tale termine, a Roma, non designava per nulla il singolo individuo. Rimandava, piuttosto, secondo l’etimo, alla sua maschera sociale, ad uno stato giuridico che, pur comprendendo in astratto tutti gli esseri viventi, li discriminava, ponendo gli uni nella piena disponibilità  di altri. Al punto che la maggioranza dei romani – esclusi i maschi liberi e adulti – finiva per oscillare tra la categoria di persona e quella di cosa posseduta. In tal modo proprio quel concetto, oggi assunto a garanzia del rispetto per ogni individuo, è stato a lungo, e per certi versi continua ad essere, un dispositivo di discriminazione tra “persone vere e proprie” e semplici appartenenti al genere homo sapiens, come filosofi liberali quali Peter Singer e Hugo Engelhardt continuano a teorizzare.
Del resto, se forse nessun altro ha colto la questione con la nettezza provocatoria di Simone Weil, il riferimento, implicito o esplicito, all’impersonale, come punto di unificazione dell’uomo con se stesso, attraversa l’intero Novecento. Che rilievo abbia avuto nella nozione freudiana di inconscio, volta appunto a decostruire le ingenue pretese di autodominio del soggetto personale, è fin troppo evidente. Ma si può ben dire che l’intera arte contemporanea – assai più pronta della filosofia a recepire gli umori profondi del tempo – si costituisca nella critica della nozione classica di soggetto. Basti pensare alla decostruzione della figura in tutta la pittura novecentesca, almeno a partire dal cubismo. Per non parlare della letteratura. Quando Maurice Blanchot sostiene che «scrivere equivale a passare dalla prima alla terza persona» (
L’intrattenimento infinito,
Einaudi 1977), si
riferisce appunto a quel processo sotterraneo che disloca tutta l’esperienza letteraria novecentesca verso la terra dell’impersonale. E cosa di diverso intendeva, il protagonista dell’Uomo
senza qualità ,
quando affermava che «poiché le leggi sono la cosa più impersonale del mondo, la personalità  non sarà  ben presto che l’immaginario punto d’incontro dell’impersonale» (Einaudi 1965)? Essendo venuta meno l’identità  personale – tanto che a distanza di qualche anno si assomiglia più agli altri che a se stessi – il mondo ha assunto una configurazione eccentrica rispetto alla classica bipartizione tra soggetto e oggetto.
Quanto al cinema e alla musica contemporanea, se ne capirebbe ben poco fuori dal riferimento all’impersonale. Da Ejzenstejn a Pelesjan l’immagine cinematografica passa dietro o davanti il soggetto – lo attraversa e lo sfonda. Non diversamente da come il suono pieno si spezza, o si interrompe, nella dodecafonia. Rispetto a tutto ciò può apparire che il pensiero sia in grave ritardo. Solo da poco, in connessione con la critica del dispositivo giuridico della persona, ha aperto una interrogazione radicale sul significato dell’impersonale. Eppure una vena profonda – che si può far partire dall’averroismo – percorre, come una trama nascosta, la storia del pensiero. Autori come Giordano Bruno, nettamente avverso alla categoria teologica di persona, o come Spinoza, già  avevano posto le domande decisive su ciò che significa oltrepassare il lessico antropocentrico, in una prospettiva che ricollochi l’uomo in una relazione costitutiva col mondo e con le altre specie viventi.
Proprio l’attuale ripresa della categoria di vita – diversamente dalle filosofie del soggetto e dell’oggetto – costituisce il centro focale di un nuovo pensiero che, soprattutto in Francia e in Italia, taglia in maniera trasversale il dibattito filosofico.
Una vita…è il titolo dell’ultimo testo, interamente affacciato sul bordo dell’impersonale, che ci ha lasciato Gilles Deleuze (adesso in Due regimi di folli e altri scritti, Einaudi 2010). Cosa altro è la vita, se non quanto abbiamo di più impersonale, perché non ci appartiene in proprio, e di più singolare, perché assolutamente irripetibile?


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