Sportello unico per le imprese, 19 anni di pasticci

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ROMA — Diciannove anni. Tanti ne sono passati da quando in Italia si è cominciato a discutere del mitico «sportello unico» capace di risolvere in un amen il complicato rapporto fra la burocrazia e le imprese. Correva l’anno 1994 quando il partito di Silvio Berlusconi, allora per la prima volta al governo, presentò un disegno di legge per istituirlo, riprendendo una proposta avanzata dalle piccole e medie imprese già  nel lontano 1983, al tempo dell’ultimo governo di Amintore Fanfani. Ma finì nelle secche insieme alla maggioranza.
Toccò allora all’Ulivo di Romano Prodi. Nel 1998 Pier Luigi Bersani e Franco Bassanini annunciarono: «Investitori e imprenditori non dovranno più fare il giro delle sette chiese. Una sola domanda a una sola amministrazione, il Comune, sostituirà  i procedimenti previsti da ben 16 leggi». Qualche mese dopo, ecco la comunicazione ufficiale che «a marzo (del 1999, ndr) saranno operativi gli sportelli unici per le imprese, mentre già  a Pasqua potrebbe partire la firma digitale».
Nuovo governo Berlusconi, nuovo tormentone. Maggio 2004: il ministro della Funzione Pubblica Luigi Mazzella rivelò trionfante che «la diffusione dello sportello unico ha consentito alle imprese di ridurre drasticamente tempi e costi per l’avvio di un’attività , in alcuni casi più che dimezzati rispetto al passato». Peccato che nessuno se ne fosse accorto. Secondo Doing business per avviare un’impresa in Italia nel 2004 erano necessari 62 giorni, un periodo inferiore in Europa soltanto a Spagna e Portogallo, con una media di 68 adempimenti e 19 uffici diversi da contattare.
Nuovo governo Prodi, nuovo annuncio. «Sta avanzando rapidamente nell’Aula il provvedimento sullo sportello unico per le imprese del presidente della commissione Attività  produttive Daniele Capezzone», rivendicava nel 2007 il medesimo. Per arrendersi poi davanti alla successiva crisi di governo.
Ancora tre anni e il leghista Roberto Calderoli fece passare una norma che lo rendeva obbligatorio. Tutti i Comuni avrebbero dovuto istituire lo sportello unico telematico per le imprese, in grado di svolgere le pratiche via Internet senza muoversi fisicamente dall’ufficio, entro il 31 marzo 2011. Finalmente: se non fosse diventato anche questo il solito pasticcio all’italiana. Passati quasi due anni dalla scadenza, un recente rapporto della Confartigianato dice che su 8.092 Comuni italiani 621 ne sono ancora sprovvisti. Poco male: è il 7,7 per cento del totale e si tratta generalmente di piccoli centri. Certo, è ben più grave la constatazione che soltanto 43 amministrazioni su 100 lo utilizzano «sistematicamente», percentuale che crolla al 14,3 nel Sud. Ma in molti casi è solo una questione di abitudine alla carta, dura da superare.
Il vero problema è un altro. La legge ha previsto per i Comuni che non possono o non vogliono dotarsi di una propria struttura informatica la possibilità  di rivolgersi alle Camere di commercio, che hanno un’apposita società  (Infocamere). Questa ha elaborato uno schema operativo di sportello unico standard ora utilizzato da 2.540 amministrazioni municipali più altre 367 in convenzione. Totale: 2.907. Il 36 per cento dei Comuni italiani impiega dunque la medesima piattaforma informatica attraverso cui le imprese possono svolgere telematicamente tutte le pratiche, dai permessi edilizi alle autorizzazioni sanitarie e di sicurezza, fino al pagamento dei diritti. Una cosa normale, nel 2013, in un Paese europeo sviluppato quale dovrebbe essere il nostro.
Il fatto è che le restanti 5.374 amministrazioni dotate di sportello unico hanno tutte sistemi diversi. C’è chi utilizza una piattaforma informatica regionale, come accade per esempio in Toscana, Emilia Romagna, Sardegna e Umbria. E chi, invece, ha semplicemente (e gelosamente) la propria. Differente da tutte le altre. Con conseguenze paradossali. Facciamo il caso di un’impresa vicentina desiderosa di espandersi in altre città  italiane. Nessuna difficoltà  per avviare una nuova attività  a Bolzano o Crotone, che hanno lo stesso sistema standard delle Camere di commercio. Se volesse aprire invece a Roma, dovrebbe affrontare una procedura completamente alternativa.
E sorvoliamo sull’efficienza. Un recente monitoraggio camerale condotto sulle principali città  ha dato risultati non sempre confortanti, ribaltando anche qualche facile luogo comune. A Napoli, per esempio, lo sportello unico funziona meglio che a Bologna, dove non è possibile compilare online tutte le pratiche. A Roma l’operatore telefonico dello sportello unico, contattato per l’assistenza, ha risposto dopo 25 (venticinque) chiamate. Per giunta il numero di telefono indicato nel sito internet non corrispondeva a quello degli uffici: come pure a Bari. Spesso, poi, molti sportelli unici gestiscono esclusivamente pratiche cartacee che viaggiano per posta elettronica dopo essere state scannerizzate. Meglio che niente, ma la digitalizzazione è un’altra cosa.
Perché non sia stato deciso di adottare per lo sportello unico uno standard nazionale, che ogni Comune avrebbe comunque potuto personalizzare in base alle proprie esigenze, è presto detto. Ci sono, anche qui, rivalità  campanilistiche, orticelli da coltivare, ottusità  burocratiche. Mancanza di buonsenso. Soprattutto, però, i soldi. Alcune Regioni hanno già  speso e stanno ancora spendendo un sacco di quattrini per le piattaforme informatiche. Appalti, forniture, contratti di manutenzione: una macchina talvolta difficile da arrestare per varie ragioni. Ed è un particolare che fa passare in secondo piano il risparmio mostruoso che i Comuni potrebbero conseguire utilizzando un unico sistema. Sulla base dei tariffari oggi applicati alle Camere di commercio, la gestione degli sportelli unici di tutte le amministrazioni italiane costerebbe 4,5 milioni di euro l’anno. Contro un impiego di risorse oggi incalcolabile.
Si spiegano forse soltanto così iniziative come quella della Regione Calabria, che si è spinta a scrivere una lettera ai Comuni serviti dalle Camere di commercio chiedendo loro di cambiare, passando alla piattaforma regionale. Oppure quella del settore informatico della Regione Veneto, dove 473 Comuni su 581 già  utilizzano lo standard camerale, che nonostante ciò ha annunciato l’intenzione di voler insistere su un proprio progetto autonomo. Per concludere con l’Abruzzo dove la Regione, pensate un po’, ha avvertito che i finanziamenti andranno ai soli Comuni disposti ad aderire a un sistema informatico regionale…


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