by Sergio Segio | 14 Febbraio 2013 8:40
Ma questa «svolta socialdemocratica» ha ben poco di ideologico. È dettata da considerazioni pragmatiche che hanno a che vedere con la sua «legacy», il segno che la presidenza Obama lascerà nella storia, la scarsità di risorse disponibili e il rapporto della Casa Bianca col Congresso e i parlamentari del suo stesso partito. Nel secondo mandato in genere i presidenti, in difficoltà all’interno, cercano di essere protagonisti sulla scena internazionale. Ma questa è un’America che sta ridimensionando l’impegno all’estero. Per cosa essere ricordato allora? Si ipotizzava la riforma dell’immigrazione, qualcuno ha parlato del controllo delle armi da fuoco. Ora si delinea un piano diverso: quello del superamento del trentennio reaganiano del laissez faire liberista e dello Stato minimo che era stato abbracciato anche da Bill Clinton. Ora si guarda, più che alla socialdemocrazia europea, al modello democratico classico dell’era di Kennedy e Johnson: libere imprese ma con più Stato, più controlli e più tasse. Il tutto basato su annunci più che su misure incisive, perché di soldi non ce ne sono: i 50 miliardi per le infrastrutture e i 15 per la casa vanno trovati e, comunque, sono briciole rispetto al pacchetto da 800 miliardi del primo mandato. L’aumento del salario minimo, se passa, lo pagheranno i privati. Gli investimenti in energia pulita pure («royalty» di chi estrae gas e petrolio). Per gli asili nido si chiede aiuto agli Stati. L’obiettivo vero: scegliere una linea nitida (la riscossa del ceto medio) e venderla bene all’opinione pubblica, costringendo poi il Congresso ad agire. Obama non vuole passare altri 4 anni in mezzo al guado. Se il Parlamento non decide proverà a scatenargli contro l’opinione pubblica. E cercherà di far riconquistare ai democratici la maggioranza alla Camera nel 2014, per poi riproporre le sue riforme a un Congresso «amico».
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