Slow work

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Davanti a un computer o attaccati a un telefonino, lavoriamo sempre. E non può essere diversamente, perché se è vero come è vero che la nostra identità  dipende dal riconoscimento, non c’è altro modo per ottenerlo che essere sempre più efficienti e produttivi perché altrimenti la nostra identità  va in crisi.
Questo spiega perché decliniamo sempre più il nostro essere nel nostro fare, la nostra identità  nella nostra funzione che, ben evidenziata nei nostri biglietti da visita aziendali, finisce con l’essere più importante del nostro nome. E’ la funzione infatti che ci definisce, è il grado in carriera che ci gratifica, per cui finiamo per non avere altra identità  se non quella riconosciuta dal nostro apparato di appartenenza. E non potrebbe essere diversamente se, da uomini, quali in fondo ancora siamo, ci siamo ridotti a funzionari di apparati.
Da quando è nata e si è affermata la civiltà  industriale, e ancora oggi nella nostra epoca postindustriale, agli apparati non ha mai interessato la sorte degli individui, ma solo l’efficienza e la produttività  delle loro prestazioni. Se non che il guru americano del management, Tony Schwarz, in ciò suffragato dalle ricerche delle più prestigiose università  americane, ci avverte che lavorare sempre in condizioni di stress e in contesti di competitività  esasperante riduce la stessa efficienza e produttività . A questo punto anche gli apparati si allarmano e cercano rimedi.
Noi europei, che pure abbiamo adottato i metodi di produzione e lavoro americani, senza però dimenticare del tutto la nostra cultura che in questo campo non è così spinta e parossistica come quella americana, già  avevamo denunciato il fenomeno negli anni Novanta, ma soprattutto ne avevamo indicato la causa che ha un nome: la depressione degli individui. Non quella classica tipica della “società  della disciplina”, quale era la nostra fino agli anni Sessanta, dove il conflitto era tra norma e trasgressione con conseguente senso di colpa, ma quella tipica della “società  dell’efficienza” dove, abolita ogni norma perché tutto è possibile, la depressione nasce da un senso di insufficienza rispetto a quanto ci è richiesto, o dal timore di non riuscire a realizzarlo secondo le attese dell’apparato, a partire dal quale, come si è visto, ciascuno misura il valore di se stesso.
Questo mutamento radicale della depressione, opportunamente evidenziato dal sociologo francese Alain Ehrenberg e dallo psicopatologo italiano Eugenio Borgna, ha fatto sì che i sintomi classici della depressione, quali la tristezza e il senso di colpa passassero in secondo piano rispetto all’ansia, all’insonnia, all’inibizione, alla perdita di iniziativa che, oltre a non essere fattori che favoriscono l’efficienza e la produttività , concorrono all’autosvalutazione, alla disistima di sé e al deprezzamento della propria identità .
Ci sono rimedi oltre alle tecniche di rilassamento suggerite dagli americani? Sì, solo percorrendo quel cammino che ci conduce a separare il proprio essere dal proprio fare, a non identificarsi con il proprio ruolo, e intraprendere quel percorso che Ehrenberg chiama “la fatica di essere se stessi” al dì là  delle nostre prestazioni, se non altro per evitare di esistere solo come una risposta agli altri.


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