by Sergio Segio | 9 Febbraio 2013 10:00
Monti riconosca che «ci sono partite importanti che non sono state coperte e dovranno esserlo», attacca Stefano Fassina, giovane turco responsabile economico Pd, citando la cassa integrazione in deroga per migliaia di lavoratori. E sull’accordo raggiunto ieri a Bruxelles nel vertice Ue, giudicato «soddisfacente» da Monti: «Un grave arretramento politico», sentenzia, «si tagliano i capitoli più rilevanti per ridurre gli squilibri strutturali tra paesi membri». Matteo Orfini, altro giovane turco, difende invece con vigore Vendola: «È molto più affidabile di Casini. Io guardo al Mezzogiorno, dove le regioni hanno tassi di decrescita simili a quelli della Grecia e dove solo la Puglia è in controtendenza. Dove invece, come in Calabria, il Pdl governa con Casini alleato di Monti si registrano i peggiori dati in assoluto». Dopo giorni di non belligeranza, ora la sinistra del Pd riprende ad attaccare il Professore. Sintomo di un cambio di fase nella campagna elettorale e nella strategia comunicativa di Bersani che preoccupa un pezzo di Pd, sbigottito dall’eccesso di affettuosità fra i due candidati premier fin qui concorrenti, che coincide con la flessione del Pd nei sondaggi.
Per capire bene le preoccupazioni della sinistra Pd, quelle di Sel e dell’elettorato, serve un passo indietro di cinque anni. Qualcuno ricorda il mito dell’«autosufficienza» di Veltroni, la teoria nel cui nome il Pd avrebbe dovuto sussumere in sé tutte le culture del centrosinistra; tutti i «ma anche»; nel cui nome il Pd avrebbe vinto da solo, al massimo con l’Idv? Come è andata a finire è noto: il Pd non arrivò al 33 per cento, la Sinistra Arcobaleno venne asfaltata dal «voto utile», ovvero inutilmente migrato al Pd.
Di lì, il cardine teorico dell’autosufficienza fu contestato, sbertucciato, politicamente sconfitto e infine rimosso dal Dna del Pd con la mozione congressuale di Bersani, nel 2009. In fondo è stata l’autosufficienza la grande maceria che il bersanismo ha rimosso dal cortile della casa crollata, spazzando via quel «correremo soli» che aveva messo le basi alla sconfitta del 2008.
Il grande cambio della segreteria Bersani, in sostanza, è stato proprio questo: cancellare l’isolazionismo chiamato «vocazione maggioritaria», riaccendere le forze democratiche e di sinistra, il dialogo con esse. «Riaprire le canalette», spiegato Bersani ai suoi, per «riorganizzare il campo del centrosinistra». Da qui l’idea di una coalizione omogenea ma non monolitica, capace di riattrarre i voti dispersi che avrebbero consentito, al giro successivo, la vittoria.
Ora però, dopo aver fortemente voluto la nascita di un nuovo centrosinistra, Bersani viene colto da una nuova sindrome, uguale e contraria a quella veltroniana che aveva combattuto. Potremmo chiamarla «la sindrome dell’auto insufficienza», che lo ha portato prima a varare la coalizione, poi, una dopo l’altra, svuotare di senso e voti le liste alleate, e infine dichiarare, a due settimane dal voto, l’insufficienza delle proprie truppe e la necessità , politica o prima che numerica, dell’alleanza con Monti.
Una sindrome che ha azzoppato tutti gli alleati, cui aveva dato valore a volte con operazioni spericolate. Per primo è successo ai socialisti di Nencini, chiamati al battesimo di Italia bene comune, poi usciti di scena; poi al dipietrista democratico Massimo Donadi, che pure ha affrontato una scissione a casa sua; poi al centrista Tabacci, cointestatario della coalizione ma ormai quasi impercettibile nei sondaggi. E adesso succede con la Sel di Vendola, alleato considerato strategico da Bersani dottor Jekyll per drenare voti sul suo fianco sinistro. Ma che Bersani mister Hyde bombarda ogni giorno dando per scontato il patto di governo con Monti. Che in questa maniera non è più un auspicio, come recita la Carta di intenti, ma è diventata una profezia che si autovvera: più il Pd la evoca e più Vendola perde la fiducia del suo elettorato. E a poco serve il soccorso del gruppo dirigente Pd che, capendo le difficoltà del presidente pugliese, giura di che non romperà mai con Sel (Franceschini, Finocchiaro, Bindi, Vannino Chiti e D’Alema): se il candidato premier non cambia passo, la vertigine della debolezza rischia di abbattersi sull’alleato, e attraverso lui su tutta la coalizione.
Una sindrome, quella di Bersani, incomprensibile anche ai suoi. «Non c’è motivo di mettere in piazza ogni giorno il corteggiamento a Monti», spiega un dirigente di area bersaniana, «fin qui avevamo il vento in poppa perché avevamo fatto un bel recupero a sinistra. Ora dovremmo competere nell’elettorato di sinistra di Grillo. E puntare, e per fortuna lo facciamo, sulla rimonta di Berlusconi, che spaventa molti italiani. E invece perché è andato dal ministro tedesco Schauble a dichiarare che saremo i più affidabili alleati di Monti? Con il risultato di mandare in confusione i nostri e dare fiato a Grillo e Ingroia». Un messaggio che anche da Sel arriva ormai ogni giorno. Ma il moderatismo «è nella sua natura», spiega un vendoliano doc, la convinzione che da noi il centrosinistra da solo non potrà mai farcela, che a questo punto è meglio mettere subito le basi per un patto di legislatura con Monti: «e di centrosinistra resterà la sua guida, ma con i voti indispensabili del centro».
E così archiviata l’autosufficienza di Veltroni, irrompe in campo l’auto insufficienza di Bersani. Con la prima il Pd ha perso; con la seconda vincerà , e ce lo auguriamo. Ma con un sei politico, ovvero in sostanza senza prendere la sufficienza.
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