Si riduce la popolazione cinese in età  da lavoro

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C’era una volta la Cina locomotiva industriale del mondo, fondata su un eccesso di forza lavoro, con un numero elevato di disoccupati o sottopagati. C’era il miracolo economico cinese, fatto di ritmi di crescita del Pil a due cifre. Quel modello rischia di sparire nel giro di pochi anni. Nel 2012, per la prima volta, la seconda economia mondiale ha visto ridursi la popolazione in età  da lavoro, dando il primo segnale di una tendenza destinata a intensificarsi nel breve periodo.
A lanciare l’allarme era già  stato il Fondo Monetario Internazionale, che in un documento pubblicato a gennaio («Chronicle of a Decline Foretold: Has China Reached the Lewis Turning Point?») avvertiva che «la Cina è alla vigilia di un cambiamento demografico che avrà  profonde conseguenze sulla sua economia e sulla società ». «In pochi anni – affermava il report – la popolazione in età  da lavoro raggiungerà  un picco storico per poi iniziare un rapido declino». Secondo le previsioni dell’Onu, citate nello stesso documento, la data «X» – quella in cui il tasso di crescita della popolazione attiva dovrebbe diventare negativo – è fissata al 2020. I dati reali, tuttavia, sembrano anche anticipare le previsioni: l’Ufficio nazionale di statistiche di Pechino certifica che la contrazione della popolazione in età  da lavoro (quella compresa tra i 15 e i 59 anni) è diminuita già  nel 2012 di quasi 3,5 milioni di unità , riducendosi a poco più di 937 milioni su una popolazione totale che fino a un paio di anni fa era stimata in 1,342 miliardi. E conferme arrivano anche dal censimento del 2010, che ha messo in evidenza un calo delle nascite più marcato del previsto, così come un aumento della popolazione anziana (over 60) e una diminuzione dei bambini (sotto i 14 anni).
La Cina insomma sta invecchiando, a un ritmo più veloce di quello previsto, e sta assistendo a una progressiva riduzione del proprio bacino di forza lavoro. Un processo di transizione comune a tutti i cosiddetti «mercati emergenti» e che però generalmente richiede quasi un secolo, mentre nel caso cinese sta avvenendo in maniera più rapida, nell’arco di circa 40 anni.
Se il trend degli ultimi anni fosse confermato, la conseguenza più ovvia sarebbe il ripensamento di diverse politiche (non solo economiche) adottate finora, e non più sostenibili. In molti chiedono di rompere uno storico tabù e di abbandonare la «politica del figlio unico», ritenuta, con ogni evidenza, la principale responsabile dell’attuale trend demografico. Ufficialmente le autorità  di Pechino non mettono in discussione l’impostazione adottata nel 1979, ma le vecchie certezze cominciano a incrinarsi. Non si spiega altrimenti la presa di posizione della «Fondazione per la ricerca sullo sviluppo”, think thank strettamente legato al governo cinese, che lo scorso ottobre ha raccomandato di elevare a due la soglia di figli per coppia in tutto il Paese, a partire dal 2015.
Più verosimilmente, la Repubblica Popolare sarà  costretta a ripensare quanto prima l’intero modello di sviluppo che nell’ultima decade le ha consentito di crescere al ritmo medio del 10 per cento annuo: in pratica, da economia quasi esclusivamente «export oriented» la Cina dovrà  trasformarsi in economia rivolta anche al consumo nazionale. Il primo a esserne consapevole è lo stesso governo, come dimostrano le misure di politica economica dell’ultimo anno, tutte rivolte a sostenere la domanda interna, che negli anni a venire dovrà , auspicabilmente, compensare il calo fisiologico dell’export.
I segnali del rallentamento economico, del resto, non mancano. Nell’ultimo trimestre del 2012 il Pil cinese è aumentato «solo» del 7,4 per cento, ritmo di crescita più basso dall’inizio del 2009, in conseguenza delle ripercussioni della crisi mondiale ma anche a causa di fattori interni e strutturali.
Il risultato è che oggi una crescita compresa tra il 7 e l’8 per cento, qual è quella prevista per i prossimi anni, viene ritenuta accettabile. Fino a poco tempo fa sarebbe stata considerata preoccupante.


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