Sentenza ribaltata sull’ex capo Cia in Italia

by Sergio Segio | 2 Febbraio 2013 7:40

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MILANO — «Ambasciator non porta pena» ormai solo nei proverbi, perché ieri invece la porta eccome nel processo d’Appello per la «extraordinary rendition» di Abu Omar, cioè per il sequestro dell’imam egiziano Nasr Osama Mustafa Hassan rapito a Milano il 17 febbraio 2003 dalla Cia con l’appoggio (secondo l’accusa al vaglio di un altro dibattimento in corso in Appello) del servizio segreto militare italiano Sismi del generale Nicolò Pollari e del suo n.3 Marco Mancini.
Mentre in primo grado si erano infatti salvati grazie al non luogo a procedere deciso dal Tribunale di Milano «perché l’azione penale non poteva essere iniziata per l’immunità  diplomatica goduta», ieri in Corte d’Appello sono invece stati condannati per sequestro di persona a 7 anni di carcere Jeff Castelli, all’epoca dei fatti consigliere dell’Ambasciata statunitense a Roma ma soprattutto capo della Cia in Italia; e a 6 anni sia Ralph Henry Russomando, agente Cia dietro la veste di primo segretario all’Ambasciata, sia Betnie Medero, anche lei 007 e seconda segretaria all’Ambasciata. Naturalmente non sono più in Italia, come i 23 agenti Cia latitanti dal 2005/2006 che nel filone principale istruito dai pm Armando Spataro e Ferdinando Pomarici erano stati condannati già  dalla Cassazione l’anno scorso a 7 anni.
Ma cosa è cambiato tra il primo e secondo grado per la posizione dei tre big dell’epoca nell’intelligence Usa in Italia, in particolare per Castelli ritenuto colui che volle fortemente il sequestro anche a costo di avere forti attriti con il capocentro Cia a Milano, Bob Lady (operativo sul campo e sanzionato dalla pena più alta, 9 anni)? È cambiato l’orientamento giuridico sulle immunità  diplomatiche espresso appunto dalla Cassazione nell’esaminare il processo d’Appello agli altri agenti Cia, dal quale i tre erano stati stralciati a causa di un difetto di notifica.
Le convenzioni internazionali ammettono che, allorquando sia imputato in Italia, lo straniero dotato di una immunità  diplomatica non sia perseguibile a patto che abbia compiuto atti nell’esercizio delle funzioni diplomatiche consistenti nel «rappresentare lo Stato accreditante presso la Stato accreditatario» o «proteggere nello Stato accreditatario gli interessi dello Stato accreditante».
In primo grado il giudice milanese Oscar Magi ritenne appunto che, dal punto di vista americano, «l’attività  di “extraordinary rendition” compiuta dagli agenti Cia, pur costituendo reato in Italia, possa e debba sicuramente inquadrarsi nell’ambito funzionale indicato dall’articolo 3 della Convenzione di Vienna (“proteggere nello Stato accreditatario gli interessi della Stato accreditante”)».
Ma l’anno scorso la Cassazione, decidendo sull’altro troncone di dibattimento, ha enunciato il principio per cui quella disposizione «non è interpretabile nel senso che è consentita» ai diplomatici «qualsiasi azione purché nell’interesse dello Stato di invio»: la lettera «m» dell’articolo 5 della Convenzione di Vienna, infatti, consente ai diplomatici di «esercitare ogni altra funzione che non sia vietata dalle leggi e regolamenti dello Stato di residenza, o alla quale lo Stato di residenza non si opponga». E per la Cassazione emergeva «con tutta evidenza che il rapimento di una persona, per condurla per di più in un luogo ove sia possibile sottoporla ad interrogatorio con metodi brutali, non rientra nell’esercizio delle funzioni consolari ed è contrario alle leggi italiane, cosicché nessuna immunità  consolare può essere riconosciuta».
Con questo viatico della Suprema Corte, coltivato dalla requisitoria del sostituto procuratore generale Piero de Petris, la sentenza d’Appello ieri (le cui motivazioni saranno redatte in 15 giorni dal giudice Rosario Spina) partiva ieri già  in salita per i tre 007/diplomatici statunitensi.
E lunedì riprende il processo d’Appello agli ex vertici del Sismi, Pollari e Mancini, nel quale sarà  invece un’altra la questione giuridica dirimente: i confini dell’estensione o meno del segreto di Stato alle varie prove nel processo. Un segreto di Stato che, dopo i premier Prodi e Berlusconi, anche il presidente Monti ha confermato non sul fatto storico del sequestro di Abu Omar, ma sugli assetti interni del Sismi e sui rapporti tra Sismi e Cia «ancorché» collegati al sequestro di Abu Omar.

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