Salari minimi più alti e asili gratis La svolta a sinistra dell’Obama 2

by Sergio Segio | 14 Febbraio 2013 8:40

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NEW YORK — Avanti tutta con uno spostamento a sinistra dell’asse della politica Usa per cercare di ridare fiato al ceto medio e garantire un livello minimo di tutela sociale dopo un trentennio di politiche reaganiane che hanno accentuato gli squilibri di reddito nella società  americana. Più che a un socialdemocratico all’europea, somiglia a un democratico di vecchio stampo l’Obama che l’altra notte ha delineato, nel messaggio sullo stato dell’Unione pronunciato davanti al Congresso, la sua agenda per il secondo mandato presidenziale: forte aumento del salario minimo (da 7,25 a 9 dollari l’ora, una crescita superiore al 20%) e sua indicizzazione al costo della vita; asili nido pubblici per le famiglie in difficoltà ; sostegni agli investimenti nell’energia pulita pagati da chi estrae petrolio e gas dal sottosuolo; 50 miliardi di dollari per il restauro delle infrastrutture fatiscenti e 15 per recuperare le abitazioni abbandonate da chi non riesce più a pagare il mutuo.
E poi, ancora, il piano per legalizzare gli 11 milioni di immigrati clandestini che vivono negli Stati Uniti e per introdurre limiti e controlli al possesso di armi da fuoco, soprattutto quelle automatiche, le più pericolose. Poco, invece, sul fronte internazionale, a parte l’ulteriore ritiro di truppe dall’Afghanistan anticipato già  ieri e l’annuncio della prima visita di Obama in Israele, prevista tra un mese: qui il presidente è stato bene attento a non creare aspettative eccessive, visto il perdurante stallo del confronto tra Stato ebraico e palestinesi.
Sul piano dei rapporti coi partner stranieri, la principale novità  contenuta nel messaggio del presidente americano è, di nuovo, economica: l’annuncio (previsto da tempo) dell’apertura di un negoziato con la Ue per una partnership sul commercio e gli investimenti attraverso l’Atlantico. La «Transatlantic trade and investment partnership» dovrebbe dar vita a un’area di libero scambio che controllerà  più della metà  del commercio mondiale e che, ha promesso Obama ai suoi cittadini, «sosterrà  milioni di posti di lavoro negli Usa».
Entusiasmo anche nelle reazioni del presidente della Commissione europea José Manuel Barroso: ieri ha parlato di un accordo che può arrivare, a pieno regime, a produrre uno stimolo economico per l’Europa pari allo 0,5 per cento del suo Pil. La trattativa, informalmente già  avviata da novembre e che Obama vuole concludere entro l’anno prossimo, non riguarderà  solo dazi e tariffe doganali, ma verrà  estesa anche all’accesso agli appalti pubblici, agli investimenti e all’esercizio delle professioni.
Obama, che ha già  promosso un altro accordo simile attraverso il Pacifico con diversi partner asiatici, spera di creare in questo modo un volano per riattivare la crescita che si è fermata un po’ dappertutto nel mondo industrializzato. Ma c’è anche un obiettivo di tipo normativo: fissare regole e standard «occidentali» nel mondo degli affari che vengano poi adottati come modelli universali anche nelle altre parti del mondo a partire dall’Asia. E ciò prima che la Cina e altre potenze emergenti divengano talmente forti da pensare di poter imporre loro le nuove regole del gioco.
Risentito per le rigidità  ideologiche e gli atteggiamenti ostruzionistici coi quali i conservatori hanno limitato l’azione di governo americano nei suoi primi quattro anni alla Casa Bianca, Obama l’altra sera ha picchiato duro con toni che sembravano ancora quelli della campagna elettorale: si è presentato come il campione dei deboli e del ceto medio e ha accusato i repubblicani di essere il partito dei protettori dei ricchi. Una scelta dettata non da furore ideologico ma dalla volontà  di costringere sulla difensiva il partito uscito sconfitto dalle elezioni di tre mesi fa. Anche perché fra qualche giorno si consumerà  il braccio di ferro sui 120 miliardi di tagli automatici di spesa pubblica che Obama sta cercando disperatamente di far rinviare per non danneggiare un’economia ancora molto debole.
Per ora i repubblicani tengono duro, sostenendo che il rigore è necessario, soprattutto davanti a un Obama che, al di là  di qualche promessa generica, non sembra avere alcuna voglia di affrontare davvero il problema del contenimento di un debito pubblico americano che è raddoppiato negli ultimi anni. L’accusa è stata mossa direttamente al presidente dal senatore della Florida Marco Rubio, al quale i repubblicani hanno affidato il «contro discorso» col quale tradizionalmente l’opposizione risponde al messaggio sullo stato dell’Unione. Rubio ha accusato Obama di essere uno statalista, aggiungendo che il presidente considera la libera impresa un problema anziché la soluzione dei problemi economici dell’America: la concezione che era stata condivisa dai suoi predecessori.
Discorso efficace quello di Rubio, ma non fino al punto di intaccare il messaggio di Obama che, in base ai primi sondaggi, è stato considerato il più positivo ed efficace di quelli fin qui pronunciati al Congresso dal presidente, secondo una maggioranza piuttosto ampia degli americani.

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