by Sergio Segio | 19 Febbraio 2013 7:51
Rafael Correa è di nuovo presidente dell’Ecuador, e passa al primo turno. Domenica i cittadini – con voto obbligatorio quelli dai 18 ai 65 anni, e facoltativo quelli dai 16 anni e over 65 – lo hanno scelto per la terza volta: una prima nel 2006, quando ha sconfitto al secondo turno Alvaro Noboa; una seconda nel 2009 contro Lucio Gutiérrez (e con la nuova Costituzione); e la terza l’altroieri, quando è stato nuovamente laureato dalle urne con una maggioranza di oltre 56,7%. Distanziato di oltre 30 punti l’avversario più votato, l’ex banchiere Guillermo Lasso (del partito Creo), fermo a meno del 24%. Ancora più indietro gli altri candidati della destra, l’ex presidente Lucio Guitiérrez (Sociedad Patriotica 6,6%), Mauricio Rodas (Suma, 4%), Alvaro Noboa (Prian, meno del 4%), o il pastore evangelico Nelson Zavala (Pre, sopra l’1%). Si ferma a poco più del 3% l’opposizione di sinistra di Alberto Acosta (Alianza Unidad Plurinacional de las Izquierdas) e a un po’ oltre l’1% il giovane candidato delle reti sociali Norman Wray, di Ruptura. Correa, a capo del movimento Alianza Paàs, assumerà l’incarico a maggio e dovrebbe governare, insieme al suo vice Jorge Glas Espinel, fino al 2017. Poi, come prevede la nuova Costituzione, approvata nel 2008, non potrà più ricandidarsi. E ha già annunciato che probabilmente in quella data se ne andrà dal paese «per non fare come Uribe in Colombia» e non pesare sul nuovo corso elettorale. Correa ottiene più voti di quelli totalizzati nel 2009 e il suo risultato va oltre il 50% in tutte le principali province: ma non nel Chimborazo, dov’è forte la presenza indigena, e in alcune province dell’Amazzonia. Una conseguenza della perdita di pezzi e di consenso nella sua coalizione originaria (specialmente quello della potente organizzazione indigena Pachakutik).
Con oltre il 50% più uno delle preferenze, il riconfermato presidente non ha bisogno di andare al ballottaggio e consente alla sua coalizione di avere la maggioranza assoluta in Parlamento (di 137 seggi). Una condizione che è mancata negli ultimi anni e che ha permesso all’opposizione di destra di mettere un freno alle riforme principali della «revolucion ciudadana»: in primis la riforma agraria, realizzata a meno del 50%, ma anche quella del Codice penale, rimasto fermo a un impianto che consente ad alcuni giudici di condannare le proteste sociali in base a disposizioni «antiterroriste» in un paese in cui non esistono fenomeni di opposizione armata. L’unico episodio sovversivo si è verificato nel settembre 2010, quando gruppi di poliziotti hanno aggredito e tenuto in ostaggio il presidente avanzando richieste corporative. Subito dopo il voto, Correa ha dedicato la sua vittoria proprio alle vittime di quel tentato golpe e alle loro famiglie e ha promesso che approfondirà la «rivoluzione dei cittadini» per renderla irreversibile. Un’altra dedica è andata ai migranti all’estero (che stanno rientrando numerosi dai paesi europei in crisi) e verso i quali il paese ha da tempo dichiarato di «avere un grosso debito da saldare». Un altro riferimento, particolarmente sentito, è stato quello al presidente venezuelano Hugo Chavez, convalescente. «Colgo l’opportunità per dedicare la vittoria anche a questo grande leader latinoamericano che ha trasformato il Venezuela, uno degli uomini più autentici del mondo», ha detto Correa. E ha precisato che «il trionfo della Revolucià³n ciudadana procede al passo di tutte le rivoluzioni del continente come la Revolucià³n Bolivariana in Venezuela». Appena appresi i risultati, i primi a felicitarsi con il presidente riconfermato – convinto fautore dell’integrazione regionale – sono stati i governi di Cuba, Venezuela, Nicaragua e Haiti: «Oggi – ha affermato Correa richiamando il sogno del libertador Simon Bolivar – l’unità della Patria Grande non è più solo un sogno, ma una necessità ».
Rafael Correa vince un’elezione che è stata intesa come un referendum sulla sua popolarità : l’unico presidente rimasto in sella per tutto il periodo del mandato nel corso degli ultimi vent’anni in Ecuador, dopo le ripetute crisi economiche e politiche che lo hanno scosso. In tutta la sua vita costituzionale, Quito ha rieletto solo 7 presidenti, su un totale di 110. Economista di scuola europea e nordamericana, ex seminarista, Correa può contare sull’ottimo momento economico che attraversa il paese, dovuto sia al prezzo del petrolio che agli indubbi risultati della revolucion ciudadana in termini di benessere dei cittadini e sviluppo delle infrastrutture: diminuzione del livello di povertà (del 12%) e di quella estrema, abbattuta di 10 punti (dal 16,9 al 9,4), aumento di scuole e ospedali, messa in campo di una riforma fiscale e qualche aumento della tassazione alle grandi imprese multinazionali. E ancora: ridiscussione del debito estero (con relativo risparmio di 8 miliardi di dollari), e progetto del parco Yasunì (ovvero la richiesta di compensazione finanziaria rivolta alla comunità internazionale in cambio del non sfruttamento petrolifero della grande riserva naturale). Un ambizioso progetto di modernizzazione a tinte socialiste: troppo pallide, però, per l’opposizione più di sinistra, che vorrebbe imprimere un’altra marcia al modello di sviluppo.
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