by Sergio Segio | 5 Febbraio 2013 8:55
ROMA. Ci hanno lasciati entrare. Eravamo un bel numero, una trentina, ieri mattina dentro il Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria a Roma. Giornalisti, candidati al Parlamento quali Ilaria Cucchi e Roberto Natale, rappresentanti di associazioni che hanno aderito alla campagna LasciateCIEntrare, coordinata da Gabriella Guido e nata nell’aprile 2011 all’indomani della circolare con cui l’ex ministro Maroni voleva impedire l’ingresso agli organi di informazione nei Centri della detenzione amministrativa per stranieri.
Ieri ci hanno lasciati entrare, ma è troppo poco. Là dentro bisogna tornarci. E bisogna tornarci una, due, cento volte. E bisogna tornarci tutti. Ci deve tornare il prossimo Parlamento, che appena insediato deve dimostrare di saper mettere la tutela dei diritti umani al centro della propria attività . LasciateCIEntrare si rivolge a tutte le forze politiche affinché prendano un impegno specifico riguardo i Cie, nella ricerca di soluzioni che vadano verso la loro chiusura e nello studio di nuove modalità di identificazione dello straniero. «We don’t want to stay here», urlava aggrappato alle maglie della grata un ragazzo nigeriano circondato dai compagni. Tutti urlavano. Che mancava l’acqua, che non sapevano perché si trovavano lì, che i documenti li avevano in regola. Scuotevano le inferriate lanciandoci i loro messaggi e sperando che noi potessimo fare qualcosa per loro. «Perché voi siete liberi e a noi ci trattano così?», ha gridato un uomo. Ma la domanda è rimasta schiacciata sulla cancellata che ci divideva. Che ne so perché? Non c’è alcun motivo. Le stanze degli uomini non ce le hanno fatte vedere. Forse perché erano così rumorosi e temevano problemi. O forse perché facevano davvero schifo, come loro stessi ci raccontavano tra le sbarre. «Abbiamo un bagno in otto perché l’altro non funziona e tutto è davvero lurido». «Il cibo che ci danno non lo mangerebbero neanche i cani». «Il riscaldamento spesso non funziona, dipende dalla fortuna». «Io vengo dalla prigione, ma lì stavo mille volte meglio».
In carcere quanto meno ci sono delle regole. C’è una legge, l’ordinamento penitenziario, e ci sono dei regolamenti. C’è la magistratura di sorveglianza che dovrebbe vigilare sui diritti umani. Qui non c’è niente. «Sono qui da otto mesi, ho mia moglie fuori, non capisco cosa vogliano da me». Di mediatori culturali che glielo spieghino neanche l’ombra. A gestire il Centro è la cooperativa Auxilium. Il responsabile ci spiega che per ogni “ospite” prendono una retta di 41 euro giornalieri. Di questi, 34 euro sono usati per pagare gli stipendi dei lavoratori di Auxilium e solo i restanti sette per i servizi agli stranieri rinchiusi, assistenza sanitaria e cibo compresi. «La pasta è intoccabile, nemmeno i gatti che girano per il Centro se la mangiano», ci dice una donna. Nella sezione femminile ci lasciano i cancelli aperti. Entriamo liberamente dove vogliamo. Le stanze sono misere, disadorne, senza quasi mobili oltre alle brande, ma non sono peggio di quelle di un carcere. Il piccolo vano adiacente ha il bagno alla turca e i panni stesi al muro. «Sono qui da un mese e mezzo e ho perso già tre chili», racconta una ragazza. «Il cibo è immangiabile. Il bagno è rotto e non scarica. Uno schifo. Ho preso un’infezione e il medico mi ha dovuto dare degli ovuli». Viene da Cuba, aveva sposato un italiano. Avrebbe dovuto avere una carta di soggiorno che però, dice, non le hanno mai dato. La scorsa estate ha divorziato e adesso è considerata irregolare. «Apritemi», urla a squarciagola una donna dal fondo del cortile. Le vado incontro. Smette di urlare per parlarmi. È bella, la pelle nera e gli occhi verdi, i capelli raccolti in ordinatissime treccine. Vive in Italia da 23 anni, mi racconta. L’hanno venduta da ragazzina, è arrivata vittima della tratta. «Ma ogni donna vuole avere una casa e una famiglia», e dunque ha sposato uno spacciatore. Ha avuto due figli. «Ma visto come l’Italia aveva trattato me, entrambe le volte sono andata a partorire in America, così i miei figli sarebbero stati più tutelati». Poi glieli hanno tolti. «Ma loro mi hanno cercata, mi hanno trovata, e continuiamo ancora a vederci di nascosto. Anche qua dentro mi telefonano. Stanno rinchiusi in un istituto, a Genova». Lei è finita in carcere a causa dell’attività del marito. Una volta scontata la pena per intero l’hanno portata direttamente al Cie, nonostante gli oltre due decenni trascorsi nel nostro civilissimo Paese.
Un paio di mesi fa il Parlamento uscente ha ratificato il Protocollo Opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura. Ci abbiamo messo dieci anni, ma finalmente ce l’abbiamo fatta. Esso impone all’Italia di dotarsi entro un anno – ma il governo tecnico si è dimenticato di depositare presso l’Onu la ratifica, e i dodici mesi ancora non hanno cominciato a scorrere… – di un meccanismo di controllo indipendente di tutti i luoghi di privazione della libertà . Tutti. Inclusi quelli della detenzione amministrativa. Se in molti casi Regioni e Comuni, stanchi di aspettare una normativa nazionale, si sono dotati autonomamente di un garante dei diritti dei detenuti, nessuno oggi garantisce istituzionalmente i diritti di chi ci parlava aggrappato a quella grata senza per questo aver commesso alcun reato. Un bel segnale potrebbe dare il nuovo Parlamento che va a breve a formarsi: mettere in agenda immediatamente la creazione di tale figura che la comunità internazionale ci richiede.
*Antigone
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