Quello che le etichette non dicono
Cavalli trasformati in manzi nel tragitto dalla stalla al ripieno della lasagna. Pomodori cinesi naturalizzati come pelati made in Italy prima di sbarcare sugli scaffali dei supermercati di casa nostra. Tonnellate di latte in polvere che si reincarnano come per magia — dopo un lungo pellegrinaggio in Tir sulle strade d’Europa — in gustose mozzarelle campane. Miracoli delle tecnologie Ogm? No, tutt’altro. Benvenuti nella babele delle etichettopoli europea, il continente dove un po’ tutti si credono Master Chef ma dove nessuno — come dimostra il caso Findus di questi giorni — sa davvero cosa mette nel piatto.
I poveri equini spacciati per mucche nelle lasagne (su cui il procuratore Raffaele Guariniello ha aperto a Torino un fascicolo per eventuali frodi in commercio nel nostro paese) sono solo la punta dell’iceberg.
Sugli scaffali dei nostri supermercati sono arrivati – e sono stati venduti – formaggi blu e pericolosissimo latte alla melamina cinese. Ma l’operazione “etichette pulite” stenta a decollare in un continente dove, come ammette il direttore del dipartimento scienze agroalimentari di Bologna Andrea Segrè, «giocano molti interessi».
Bruxelles, dopo quattro anni di battaglia, ha approvato 18 mesi fa un giro di vite: sono stati imposti caratteri più grandi per indicare gli ingredienti, rese obbligatorie le indicazioni sul contenuto di grassi, sale e sui valori nutrizionali, potenziate le indicazioni sulla provenienza della materia prima. Peccato che si tratti di una rivoluzione a metà : le norme entreranno in vigore a rate, ultima tappa dicembre 2016. E la versione finale del provvedimento – annacquata dalle resistenze della lobby dell’industria alimentare – lascia aperte falle enormi per i giochi di prestigio degli apprendisti stregoni della tavola.
Lo status quo Poche regole e confuse. Lo status quo delle etichette made in Europe, come testimonia il giallo della Findus è «come minimo sconfortante» racconta Stefano Masini, responsabile dei consumi per la Coldiretti. Certo, dopo il disastro della mucca pazza è obbligatorio raccontare ai consumatori dove è nata, in che località è stata allevata e quando è stata macellata la cotoletta che serviamo ai nostri figli. E una carta d’identità certa, almeno per l’origine, devono averla frutta e verdura, pesce, olio, uova e tutti i prodotti Dop come parmigiano-reggiano e prosciutto di Parma.
Per il resto però è nebbia fitta.
Compriamo pasta, salumi e latte a lunga conservazione senza che nessuno sia obbligato a spiegarci da dove arrivano. «Il 50% degli agnelli che mangeremo a Pasqua sono stati prodotti all’Est e in Romania come la carne di cavallo delle lasagne», racconta Masini. Tutto legittimo, per carità . Peccato che almeno fino a fine 2014 – in base alle norme Ue – macellai e supermercati non siano tenuti a dirlo ai loro clienti.
Il quadro, insomma, è poco chiaro. E l’occasione, come sempre, fa l’uomo ladro. Prendiamo i “furbetti del formaggino”, figli primogeniti della «ridicola legge» (parola di Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food) che consente di vendere prodotti caseari citando come ingredienti solo “Latte, caglio e sale”. «Naturalmente una mozzarella non è buona solo se è fatta in Italia, ma piuttosto se è fatta con il latte fresco», dice Roberto La Pira de Il Fatto Alimentare. Nessuno però è obbligato a dare questa indicazione sulla confezione. E – guarda caso – il 50% dei bocconcini e delle trecce in vendita nei negozi tricolori (stima Coldiretti) sono prodotti con latte straniero, con materia prima in polvere o persino con cagliate industriali arrivate dall’est Europa. Tanto che pochi si sorprendono quando qualcuna di queste mozzarelle, magari nelle mense degli asili, diventa azzurra come un puffo non appena si apre la confezione.
I pomodori clandestini La trasparenza, in questo caso, è un optional, nel pieno rispetto – e questo è il peggio – della legge. Un altro caso limite nel confuso
melting pot delle etichette europee è quello della naturalizzazioni forzata dei pomodori made in China. Ogni anno – calcola Coldiretti – le navi in arrivo dal Far East scaricano in Italia 80 milioni di pomodori lavorati. Che fine fanno? Semplice. Vengono lavorati industrialmente, magari solo aggiungendo acqua e sale, e come per incanto – alla faccia della Bossi-Fini – cambiano naziona-lità , approdando negli iper del Belpaese con stampato sulla confezione un bel “Made in Italy”.
Una truffa? In punta di diritto (leggi in base alle leggi doganali) no, anche se la logica suggerirebbe il contrario. «Nessuno sostiene che i pomodori cinesi o il grano importato dall’Est non siano buoni, magari migliori dei nostri. Ma perché non dire ai consumatori da dove arriva? Di solito chi tace è perché ha qualcosa da nascondere…», sostiene Sardo. E a pagare il conto alla fine sono i gioielli a denominazione di origine controllata dell’Italia Spa visto che l’industria della “contraffazione-legale” dei nostri prodotti vale, secondo Coldiretti, 1,1 miliardi l’anno.
La potenza delle lobby
Chi frena davvero l’operazione etichette pulite? La risposta è facile: le grandi lobby che in un mondo sempre più globalizzato – dove grano, polli e cavolfiori macinano migliaia di miglia prima di arrivare in tavola – non hanno alcun interesse a raccontare l’avventurosa storia dei loro prodotti. La carne di cavallo finita nelle lasagne Findus, per dire, è partita dalla Romania, transitata da un trader di Cipro, passata a un’azienda francese prima di rimbalzare nei negozi di Londra via Amsterdam e Lussemburgo. Un ping pong legittimo, ma da mal di testa. «Quando invece l’Italia ha cercato di ottenere la certificazione dei polli made in Italy durante la crisi dell’aviaria, Bruxelles ha minacciato di metterci sotto procedura d’infrazione per violazione della libera circolazione delle merci », ricorda Masini. Stesso discorso per la dicitura un po’
minimal “Latte, caglio e sale”. A remare contro in questo caso sono i giganti del formaggio transalpini pronti tra l’altro a far Bingo quando cadranno le quote latte.
«L’Italia ha diritto di difendere il suo patrimonio alimentare – dice Segrè – come fa Londra con la City e la finanza». Qualche timido successo, in effetti, siamo riusciti a portarlo a casa. Come le ultime norme sulla trasparenza per le etichette dell’olio extra-vergine varate dalla Ue che – oltre al luogo di provenienza delle olive – devono contenere «in caratteri adeguati» informazioni sulla loro qualità e la categoria commerciale.
Purtroppo non sempre va così: la radicale riforma approvata due anni fa dal Parlamento italiano che obbligava a dare informazioni approfondite sulla “storia” di ogni prodotto alimentare è stata bloccata da Bruxelles che ha minacciato l’applicazione di sanzioni. «Almeno in questo campo però i consumatori tricolori sono più tutelati dei loro concittadini europei », ammette Masini. Nei nostri supermercati, ad esempio, è già obbligatorio spiegare da dove arrivano anche pollo, latte fresco e passata di pomodoro.
Qualcuno, con coraggio, prova già ad andare oltre. «Noi siamo pronti a lanciare su scala più ampia il nostro progetto etichette narranti», anticipano da Slow Food. Una sorta di biografia a 360 gradi per ogni prodotto. Completa per dire, in caso di carne bovina, no solo di dati su nascita, luogo d’allevamento e macellazione ma anche sull’alimentazione e la sostenibilità ambientale della produzione. Confondere una mucca con un cavallo, a quel punto, sarà molto più difficile.
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