Quel pioniere che creò il mito della letteratura tedesca in Italia

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Quell’ironia era anche lo sguardo di una radicale libertà  interiore, che non si lasciava sedurre né dalle suggestioni né dalle idiosincrasie, ma dava ad ognuno il suo, indipendentemente da simpatie e antipatie ideologiche e anche dalle predilezioni e idiosincrasie personali. L’ironia, in Leonello Vincenti, rivelava la sua vera essenza: una libertà  nei confronti di ogni pretesa totalizzante, di ogni idolo, di ogni formula, di ogni dogma. Ad esempio, forse nessuno come Croce ha influito sulla sua formazione estetica e letteraria, ma ciò non gli ha impedito minimamente un’assoluta autonomia e difformità  di giudizio — mai esibite o risentite, ma tranquillamente ferme — nei confronti delle posizioni crociane, da lui non condivise, su Leopardi o sul Barocco. Quell’ironia amabile, affettuosa e inflessibile era un’essenza dell’umano, che tanti — da Sergio Lupi a Giorgio Melchiori — gli hanno riconosciuto, con gratitudine non solo intellettuale. La sua ironia, come ogni autentica ironia, era l’espressione non certo retoricamente sentimentale della sua profonda capacità  di affetto, che ho avuto la fortuna di esperimentare personalmente, così come una delle fortune della mia vita è quella di averlo avuto maestro.
Dell’opera di Vincenti — a cinquant’anni dalla sua morte, novant’anni dopo il suo primo articolo — resta «moltissimo, quasi tutto», come scriveva Ladislao Mittner, l’unico germanista che possa essergli paragonato a pari titolo. Morto a Torino il 31 gennaio 1963 e nato a Trino Vercellese nel 1891, Vincenti aveva certamente, come è stato più volte sottolineato, le classiche virtù piemontesi di riserbo, misura e dedizione al lavoro, ma non è un caso che egli abbia tenuto per tanti anni la cattedra di letteratura tedesca all’Università  di Torino, «la città  moderna della penisola», come la definiva Gramsci, insieme Detroit e Leningrado, la capitale italiana della modernità  industriale, i cui problemi, le cui aperture e le cui contraddizioni, il cui influsso sull’esistenza dell’individuo non sono stati affrontati in nessuna letteratura con altrettanta intensità  come in quella tedesca.
Non è dunque strano che Torino sia la capitale della germanistica italiana e che a Torino sia nata la prima cattedra di letteratura tedesca, affidata al geniale e approssimato Arturo Farinelli, il maestro di Vincenti, che apprese da lui l’appassionato sentimento della letteratura universale e l’apertura su molti orizzonti, restando peraltro immune dal suo titanismo avventuroso ma velleitario. È costante infatti, nell’opera critica di Vincenti, il ridimensionamento del titanismo così presente nella letteratura tedesca, anche in autori grandissimi da lui amati e mirabilmente studiati come Hà¶lderlin e Goethe, cui egli ha dedicato splendidi saggi che ne svelano tutta la grandezza ma sfatano l’enfasi titanica, peraltro presente più in molti loro entusiasti esegeti che nella classicità  delle loro opere.
Volontario nella Grande guerra e poi irriducibile antifascista legato alle iniziative di Gobetti e Ferruccio Parri, Vincenti è stato per molti anni, sino all’avvento del nazismo, lettore a Monaco, alla cattedra del grande Karl Vossler. Ha vissuto e conosciuto a fondo non solo la letteratura tedesca in generale, ma, dal vivo, quella straordinaria, tormentata e contraddittoria cultura tedesca che sarebbe finita sul rogo nazista. In Germania ha conosciuto anche la moglie, Friederike Gutmann, e attraverso di lei quella grande civiltà  ebraico-tedesca che il nazionalsocialismo, compiendo non solo un atroce genocidio ma anche un imbecille suicidio, ha distrutto. Ho certo molto imparato da lui seguendo per anni le sue lezioni a Torino, ma forse quasi altrettanto, per quel che riguarda la Germania di quel periodo, dai racconti della signora Friederike, quando, dopo la morte di Vincenti, ho abitato per un paio d’anni nella sua casa a Cavoretto, sulla collina torinese, fra i suoi alberi e le sue piante che egli tanto curava e amava, e dove erano rimaste la moglie e la figlia Eleonora, studiosa di filologia romanza e italiana che aveva ereditato non solo il suo talento umanistico ma anche il suo umorismo, talora tagliente ma, come in lui, espressione di radicale onestà  e riservato affetto. Il figlio Giorgio, chimico, aveva ereditato da lui la passione per la montagna, dove morì assai giovane in una difficile escursione. I miei studi li ho fatti certo all’università  ma, dopo, anche nell’affascinante biblioteca di casa Vincenti e sino a pochi anni fa ero ancora in grado di dire alla figlia, quando cercava un libro, su quale scaffale si trovasse. Ricordare quella loro esistenza alta e isolata, in collina, mi fa anche malinconia, perché forse un po’ lontana dalla banale e calda vita quotidiana.
Di Vincenti realmente resta quasi tutto, con un’assoluta freschezza e attualità  o meglio novità  creativa. Ha fatto conoscere in Italia un grande, ostico e spesso rifiutato poeta come Stefan George. La sua Letteratura tedesca dell’età  barocca (1935) è stata la prima a fare i conti con quel Barocco tedesco che più tardi sarebbe divenuto un punto focale dell’interesse politico-culturale; io e più tardi Emilio Bonfatti, altro grande studioso del Barocco prematuramente scomparso, avevamo iniziato ad aggiornarla, tenendo conto degli appunti di uno degli ultimi corsi in cui lui era tornato sull’argomento, ma poi abbiamo deciso di non farne nulla per non snaturarla.
Vincenti è stato il primo a studiare la peculiarità  della letteratura austriaca, con i suoi saggi su Raimund e soprattutto Grillparzer; non è un caso che io, uscito dalla sua scuola, mi sia occupato di cose absburgiche. Ho visto nascere quel mirabile saggio Grillparzer e la libertà , in cui Vincenti rende giustizia poetica a una visione della storia che gli era avversa ma di cui coglieva la tragica forza creativa. Il suo libro su Lessing rimane fondamentale, anche se è lecito dissentire dall’interpretazione del Nathan; in uno degli ultimi corsi aveva corretto il giudizio, in precedenza discutibilmente limitativo, su Brentano, riconoscendone la magia lirica. Un capolavoro, oggi più che mai leggibile e godibile, è il saggio su Angelo Silesio (1931), il poeta mistico del Seicento affascinato dalla rosa che fiorisce senza perché, che fiorisce perché fiorisce. Anche in questo caso Vincenti ha saputo cogliere in tutta la sua grandezza una visione mistica che non gli era certo congeniale. Ho avuto la fortuna di veder nascere, in un corso universitario, il saggio sull’Ultimo Schiller, in cui il «poeta della libertà » trascende questa sua nobile etichetta obbligata in una cupa, possente, irrisolta tragicità .
Si dovrebbero nominare tanti studi, anche brevi articoli di giornale (specialmente sulla «Stampa») che hanno precorso scoperte e giudizi, ad esempio Thomas Mann; pagine sorridenti e profonde su Goethe, come l’intuizione della sua capacità  di trasformare la passione in saggezza. La sua equanimità  e la sua avversione a quelle formule audaci ed eclatanti che attirano attenzione e fama come ogni suggestiva e aggressiva semplificazione, la sua limpida pacatezza gli hanno impedito un successo di pubblico. Forse ne soffriva un po’, ma ironicamente e non troppo, sorretto com’era da un forte senso goethiano e laico dello scorrere della natura, del fiorire e sfiorire delle cose, in fondo tutte più o meno simili alle piante e agli alberi della sua casa in collina.
Questo «ostricato» — come lo chiama Parri in una lettera ritrovata da Marco Cerruti — era un maestro che sapeva correggere inflessibilmente senza mortificare: quando, studente, gli mostrai un breve saggio che avevo scritto su George, me lo smontò giustamente passo a passo, in particolare gli errori di lingua, ma con un’amichevole affettuosità  che non stroncava, bensì incoraggiava. Quando seppe che la mia tesi da lui seguita e guidata, Il mito absburgico, sarebbe stata pubblicata nei saggi Einaudi, mi scrisse — a Freiburg, nella Foresta Nera, dove mi trovavo con una borsa di studio — dicendomi: «È una grossa fortuna per un giovane e io credo di conoscerLa abbastanza per essere certo che Lei non ne trarrà  conclusioni affrettate». Lo scritto, l’ultimo che ho ricevuto da lui, si concludeva accennando a un suo imminente ricovero per «una lieve operazione». Era la fine del gennaio 1963, pochi giorni prima della sua morte.


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