Nostalgia di un mondo con CheckPoint Charlie
Nessuno rabbrividisce pensando ai sottomarini Typhoon, i mostruosi “boomer” da 48mila tonnellate capaci di lanciare 20 missili a testata nucleare multipla e di annientare l’intera America del Nord contro i quali i banchi di scuola avrebbero potuto fare poco, ora che la flotta sottomarina sovietica langue, e arrugginisce, nei porti. I B52 del Comando Strategico, il SAC, che fino agli anni ‘80 restavano perennemente in volo ai limiti del cielo sovietico per essere l’ala dell’annientamento reciproco in caso di attacco, sono a terra od occupati in tutt’altri pattugliamenti. Mentre il CheckPoint Charlie a Berlino come il ponte di Glienike, a Potsdam, luogo leggendario per gli scambi fra spie, sono ridotti a località per turisti o a semplici ponti.
Non si ha nostalgia dell’embargo navale attorno a Cuba, dove già erano disponibili missili nucleari di “teatro”, come voleva il gergo del tempo, da usare per respingere lo sbarco dei Marines se Kennedy l’avesse ordinato, senza che la Cia o il Pentagono ne sospettassero l’esistenza.
L’ultima generazione degli Stranamore all’inseguimento del «Nuovo Secolo Americano» ha già speso le proprie ultime follie nell’«esportazione della democrazia» a mano armata e nelle «guerre preventive», non più nell’Armageddon nucleare con il nemico dalla stella rossa sul colbacco. Ma reti di spionaggio continuano ad agire, più per carpire segreti industriali e chiavi di accesso informatiche, come dimostrò Anna Chapman, che i piani d’attacco dei sottomarini nucleari americani, già perfettamente noti all’ammiragliato sovietico anche ai tempi del «classified», del segreto.
Ma le ripetute punzecchiature legislative prodotte dal Congresso degli Stati Uniti contro Putin, la indifferenza, quando non il tifo, dei media che incoraggiano ogni iniziativa che possa riesumare l’immagine di un regime sovietico in chiave neo-zarista, e raccontare Putin stesso come un nuovo Stalin mediaticamente più abile, segnalano che la nostalgia per i quarant’anni di Cold War, di Guerra Fredda, è sempre sotto la crosticina del tempo recente. «Le relazioni fra Usa e Russia — scrive il russologo Stephen Cohen su Russia Today— già raggelate da dispute fondamentali sullo scudo antimissile, il Medio Oriente e i diritti umani, stanno assumendo connotati tossici con nuove azioni nello stile dell’occhio per occhio».
Non olocausti da super Hiroshima sempre a portata di bottoni da premere, ma piccole vittime, sono i prodotti di questa riedizione grottesca della tensione che gelò il pianeta per quasi due generazioni. Le vittime sono diecimila orfani russi in attesa di genitori adottivi americani, bloccati per rappresaglia contro la legge che vorrebbe punire i russi per le violazioni sistematiche della libertà di stampa e dei diritti civili, con una severità che il Congresso americano non dimostra nei confronti di altre nazioni anche più repressive.
Naturalmente, i diretti interessati smentiscono. Il premier russo Medvedev nega che si sia alla vigilia di una nuova Guerra Fredda. Il nuovo segretario di Stato John Kerry incontra il collega russo per «snebbiare l’aria da ogni equivoco», nonostante in Siria, o sulla questione dell’Iran nucleare, i due ex condomini del mondo siano ancora impegnati in quei foschi duelli per procura, appoggiando fronti opposti, che dilaniarono per quattro decenni Asia, Africa e America Latina. Nel revival della Mini Guerra Fredda, si scorge soltanto la nostalgia americana del sentirsi sempre i buoni e da parte russa si intravede lo storico, profondo desiderio di ogni governo e regime russo da un millennio: l’aspirazione bruciante ad essere rispettati e presi sul serio.
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