Nigeria. I martiri d’Africa

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JOS (Nigeria). Ogni domenica con il metal detector in mano, Paul ispeziona le centinaia di persone che vanno a messa nella chiesa di Saint Murumba, nel centro di Jos. Alle donne impedisce di portare dentro le borse, che accumula al lato del cancello. Agli uomini passa al setaccio tutto, comprese le Bibbie che portano in mano. Intorno a lui, la parrocchia sembra un fortino assediato: la strada è chiusa al traffico, come accade per ogni chiesa in città  la domenica e per le moschee il venerdì. Lungo il perimetro esterno della struttura ci sono mura spesse, rinforzate ulteriormente negli ultimi mesi: una barra di ferro blocca l’ingresso, nessuna auto può entrare. «Cerchiamo di difenderci come possiamo, ma non è facile», dice David Gyang, l’architetto che negli ultimi mesi ha diretto i lavori intorno alla chiesa. La minaccia a cui si riferisce l’architetto Gyang ha il nome del gruppo che da tre anni mette a ferro e fuoco la Nigeria, facendo saltare le chiese, uccidendo musulmani moderati e sequestrando gruppi di stranieri: Boko Haram. Nei giorni scorsi il gruppo ha rapito un ingegnere italiano nel Nord del paese, ieri sette francesi, bloccati in Camerun e portati oltre confine.
Paul è l’ultima barriera che difende le centinaia di fedeli radunati per la messa dalla minaccia estremista. «Non ho paura», risponde, quando gli si chiede come stia. Però guarda per terra e la sua voce è flebile. Come tutti a Jos, Paul conosce bene la storia di Tari: nove anni ancora da compiere, lo scorso marzo il bambino era parte del gruppo di volontari incaricati del controllo della parrocchia di Saint Finbar, a poca distanza dal centro. La testardaggine del bambino nel volere esaminare l’auto che pretendeva di parcheggiare nel cortile costrinse il kamikaze al volante a far detonare la vettura imbottita di esplosivo al cancello e a non lanciarsi direttamente contro l’ingresso della chiesa. Quel giorno morirono 13 persone, compresi Tari e l’attentatore: se il bambino non avesse fermato la macchina, le vittime sarebbero state molte di più. «Tari aveva un dovere da compiere — dice oggi suo padre, Pam Dung, con gli occhi vuoti — lo aveva preso seriamente, anche se era tanto piccolo, e lo ha fatto fino in fondo».
Ogni domenica, il signor Dung prende la moglie e gli altri due figli e torna a Saint Finbar: attraversa il cancello nuovo, passa accanto al punto dove suo figlio è morto e alla carcassa dell’auto esplosa, che dopo 11 mesi nessuno ha pensato di rimuovere per indagare. «Nessuno indaga qui — dice — la giustizia non esiste. C’è la giustizia di Dio, spero solo in quella: per questo non posso abbandonare la chiesa».
Come il signor Dung, a Jos ogni domenica migliaia di persone vanno a messa: un atto normale, dalle nostre parti, che qui invece significa sfidare il destino in una guerra silenziosa che dal 2001 a oggi ha fatto più di 4mila vittime. I fedeli arrivano puntuali, con i bambini per mano e i vestiti buoni indosso: a Saint Murumba centinaia di persone affollano già  la messa delle sei del mattino e il tutto esaurito prosegue fino all’ultima funzione, quella delle 10. «La chiesa è la nostra forza — dice l’architetto Gyang — cerchiamo di andare avanti, anche se viviamo in mezzo a una lunga scia di odio. Sappiamo che l’Islam non è il colpevole, che è tutta una questione politica: non c’è una religione che dice di colpire le persone innocenti mentre vanno a pregare. Ma non è facile farlo capire a tutti». Grazie alla sua professione, Gyang ha una postazione privilegiata sugli effetti della crisi: Jos, racconta, è ormai una città  spaccata, quartieri cristiani da una parte, quartieri musulmani dall’altra: neanche i mercati sono più territorio comune.
«La Nigeria è il più grande paese al mondo diviso in maniera pressoché uguale fra cristiani e musulmani. I musulmani vivono in maniera predominante al Nord e i cristiani nel paludoso Sud; per la maggior parte il cristianesimo e l’Islam si incontrano nella Nigeria centrale, una striscia di terra fertile fra il settimo e il decimo parallelo che corre da est a ovest attraverso l’Africa », scrive descrivendo Jos la giornalista americana Eliza Grinswold ne Il decimo parallelo, il libro che dedica allo scontro fra le due grandi religioni.
Ma a voler scavare a fondo, si scopre che dietro a stragi come quelle di Saint Murumba si nasconde qualcosa di più complesso dello scontro fra religioni e di Boko Haram: c’è il braccio di ferro lungo centinaia di anni per il controllo della terra fra i pastori cristiani Birom e gli allevatori musulmani Hausa, endemico alla Nigeria come ad altri paesi africani. E c’è una lotta più recente e ben più complessa che gira intorno a una parola chiave, “appartenenza”: sin dall’indipendenza, per tutelare tutte le 250 etnie che compongono il paese, la Costituzione nigeriana ha stabilito che ognuno dei 36 stati che confluiscono nella Federazione attribuisca lo status di “popolazione indigena” a coloro che considera autoctoni dell’area: con lo status vengono privilegi, accesso alle professioni, possibilità  di possedere la terra. Diritti fondamentali in un Paese dove lo stato è inesistente e solo l’ “appartenenza”, appunto, a una comunità , offre un’ancora di salvezza da povertà , disoccupazione e mancanza di scuole e servizi. A Jos e nei dintorni il risultato è che gli Hausa, arrivati nella metà  dell’800, non sono considerati indigeni e quindi hanno molti meno diritti dei Birom, che tradizionalmente controllano il governo.
Dal 2001 in avanti, la ribellione degli Hausa ha innescato una spirale di violenza che ancora oggi pare senza fine: l’arrivo, nel 2010, di Boko Haram, ha peggiorato la situazione. Provenienti dagli Stati musulmani del Nord, gli estremisti hanno trovato terreno fertile in questa terra e reclutato adepti fra i tanti musulmani stanchi dell’aggressività  messianica dei cristiani pentecostali Birom.
In questa situazione, sono davvero pochi quelli che osano varcare le frontiere fra le due comunità : Sani Suleiman è uno di loro. «Disoccupazione, la mancanza di acqua e di elettricità , corruzione, scarsità  del denaro: le cause dell’estremismo sono lì, non nella religione. Siamo uno dei paesi più ricchi del mondo di materie prime, ma anche uno dei più corrotti. Non ci sono speranze per una vita migliore, non ci sono prospettive, lo Stato è assente: e così l’estremismo vince », dice. Sani è musulmano, uno dei più impegnati nel dialogo fra le due grandi religioni, ma anche lui è difficile avvicinarsi a una chiesa di domenica. «Penserebbero che sono di Boko Haram: quello che non capiscono è che questo gruppo è un pericolo anche per noi, che non c’entriamo nulla», dice.
A coinvolgere Sami nello sforzo di abbattere le barriere è un uomo che da anni conduce, quasi in solitaria, la battaglia contro il dilagare degli opposti estremismi, l’arcivescovo cattolico Ignatius Ayau Kaigama. Forte dell’autorità  che gli è concessa dalla sua carica, il vescovo va in moschea a parlare con i musulmani, cerca di calmare i suoi fedeli violenti, critica il governo quando non fa abbastanza: «La religione non è che una tattica per dividere. Le radici di questo conflitto sono profonde e non basta citare il Corano o la Bibbia per capirle. Per risolvere la questione bisogna andare oltre, serve la volontà  politica di affrontare i problemi che questa gente
vive sulla sua pelle ogni giorno. Io da solo non posso farlo, ma continuerò a indicare quali sono le questioni da risolvere. E non smetterò di parlare con i musulmani e di chiedere ai miei di non barricarsi nell’estremismo».
A Jos non tutti sono d’accordo. l’arcivescovo è attaccato dalla sua stessa comunità  per atteggiamenti definiti “troppo morbidi” e dagli estremisti musulmani perché cattolico: ma fra la gente comune resta popolarissimo. «È in lui e in pochi altri che riponiamo la nostra fiducia per un domani migliore», dice prima di salutare l’architetto Gyang. Sami Suleiman, qualche ora più tardi, ripete la stessa frase.
Troppo tardi per Tari e per le centinaia di bambini morti da entrambe le parti dall’inizio del conflitto: ma la speranza di tutti è che per Paul e gli adolescenti come lui il futuro possa essere migliore.


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