Lo zar Putin fa affari d’oro con i lingotti

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Hanno entrambi la passione dell’oro, nel senso dei lingotti. Ma se il genio criminale uscito dalla penna di Ian Fleming aveva un piano per rendere radioattive le riserve di Fort Knox (mitico forziere dell’oro americano) e far salire alle stelle il valore di quello in suo possesso, il leader del Cremlino non ha avuto bisogno di stratagemmi per valorizzare il proprio metallo.
Negli ultimi cinque anni, la Banca centrale russa ha raddoppiato il volume del suo patrimonio aureo. Secondo dati del World Gold Council, nel decennio compreso tra il 2002 e il 2012 Mosca ha stipato nei suoi caveau sulla centrale Ulitza Pravdy ben 570 tonnellate aggiuntive di lingotti, equivalenti a quasi tre volte il peso della Statua della Libertà . Grazie a questa incetta la Russia è diventata il primo acquirente mondiale di oro, distanziando perfino la Cina e collocandosi all’ottavo posto nella classifica dei Paesi con le più grandi riserve del pianeta.
Lo shopping compulsivo continua: al momento, la Federazione russa acquista oro al ritmo di 500 milioni di dollari al mese. E l’investimento ha dato all’evidenza ottimi frutti, se è vero che nel 2005 il prezzo di un’oncia del prezioso metallo oscillava intorno a 495 dollari, mentre ora vale più di 1.650 dollari l’oncia.
Eppure non è solo o tanto la rivalutazione, di circa il 400% del suo valore, a rendere potenzialmente importante e significativo l’oro di Putin. Dopotutto, secondo i moderni criteri d’investimento puntare sul minerale di Mida è del tutto o quasi privo di senso. Non serve infatti ad alcuno scopo pratico. Non ha rendimento per sé. Il re degli investitori americani, Warren Buffett, che non ha mai considerato l’oggetto degno delle sue attenzioni, dice che chiunque guardasse la cosa da Marte rimarrebbe molto confuso nel vedere degli esseri viventi che estraggono qualcosa da un buco per nasconderla in un altro.
Ma c’è un altro modo di vedere l’oro: è la riserva più liquida in tempi di grandi mutazioni e cambi di stagione storica, quando equilibri geo-strategici di lunga data vacillano, egemonie pluridecennali progressivamente si sgretolano, nuovi protagonisti si affacciano sulla scena globale. Esattamente lo scorcio d’epoca nel quale viviamo: tramonta la Pax americana e forse già  nel 2017, dopodomani, la Cina sarà  la prima economia mondiale.
Ed è sintomatico che sia il rapporto con l’oro a marcare una cruciale differenza di condizione tra Paesi emergenti e Paesi sviluppati. Il quantitative easing, cui fanno ricorso le maggiori economie europee per sostenere i mercati, costringe infatti le banche centrali a vendere ingenti quantità  d’oro: così Francia, Spagna, Olanda e Portogallo insieme si sono sbarazzate di quasi 800 tonnellate in dieci anni. Se la crisi persiste, le vendite sono destinate a continuare. Nello stesso periodo la Svizzera ne ha liquidate 877 tonnellate. Invece Mosca come abbiamo visto l’oro lo compra, imitata da Cina e Arabia Saudita.
«Più oro una nazione possiede, più sarà  sovrana in caso di cataclismi valutari con il dollaro, l’euro, la sterlina o qualunque altra moneta di riserva», ha dichiarato a Bloomberg il deputato russo Evgeny Fedorov, illustrando in modo esemplare il Putin-pensiero.
Pesano naturalmente su questa mentalità  dell’incetta i retaggi della storia russa, sia zarista che sovietica. Già  nel 1867, pochi mesi dopo la vendita dell’Alaska agli Stati Uniti, lo zar Alessandro II ordinò al suo governo di rastrellare oro sul mercato. Fu suo nipote, Nicola II, l’ultimo zar, ad adottare il gold standard, cioè a legare il valore del rublo all’oro, salvo poi abbandonarlo nel 1914, al momento dello scoppio della Prima guerra mondiale. Quanto alla Rivoluzione del 1917, tra i primi obiettivi dei bolscevichi furono la Banca centrale e le sue riserve auree, catturata all’alba del 7 novembre, cioè immediatamente dopo i colpi di cannone dell’incrociatore Aurora, che segnarono l’inizio dell’insurrezione. Pochi giorni dopo, Lenin ordinò la nazionalizzazione di tutte le banche e la confisca dei loro depositi aurei. Seguirono settant’anni di silenzio e leggende sull’oro del Pcus, ma forte è il sospetto che prima del crollo dell’Urss, nell’agosto 1991, la nomenklatura del partito abbia ammassato fuori dal Paese molte tonnellate d’oro, di cui ufficialmente non è mai stata trovata traccia.
«La strategia dell’oro si inscrive perfettamente nell’agenda nazionalista e statalista perseguita da Putin. Sono mosse difensive, che però si sono rivelate molto fruttuose in termini di rendimento», dice Tim Ash della londinese Standard Bank Plc. E aggiunge: «Si dice che in politica e negli affari ci voglia fortuna e Putin sembra averla in entrambi». La strada è però ancora lunga. Anche dopo la bulimia dell’ultimo decennio, le riserve auree della Russia superano di poco le 1.000 tonnellate e l’oro rappresenta appena il 9,5% delle sue riserve valutarie. Per farsi un’idea, gli Stati Uniti ne posseggono oltre 8 mila tonnellate, la Germania 3.391, il Fondo monetario internazionale 2.814, seguito da Italia, Francia, Cina e Svizzera. In questi Paesi, con eccezione della Cina, l’oro rappresenta il 70% delle riserve complessive.
Ma Vladimir Vladimirovich non si fa impressionare. Decisa la direzione, avanza a marce forzate: l’oro è per Putin uno dei pilastri sui quali ricostruire la potenza russa.
Paolo Valentino


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