«L’Italia è in fondo per competitività » I calcoli dell’uomo che ha battuto Soros

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Dalio, un eccentrico italo-americano di 63 anni, da qualche mese è diventato il gestore di hedge fund che ha guadagnato più denaro nella storia, superando George Soros. Lo ha fatto con un suo modo quasi da autodidatta di capire i meccanismi della produttività , della competizione internazionale e del debito. Con un migliaio di collaboratori ai quali fa fare i calcoli, Dalio parte dai dettagli e costruisce stime sul perché certi Paesi cresceranno o tramonteranno; sul perché un certo livello di debito è sopportabile oppure non lo è. Lui studia per mesi, per capire se una recessione è frutto di conti pubblici fuori linea o se piuttosto questi sono solo un sintomo di problemi più profondi e duraturi.
Secondo un uomo così, oggi, l’Italia è all’ultimo posto: lo è fra i Paesi che Bridgewater, il suo hedge fund, prende in considerazione in base alle prospettive di crescita date dalla loro competitività  internazionale. Poiché è ossessivamente fissato sui numeri, piuttosto che per modestia, Ray Dalio spiega che circa una volta su tre può sbagliarsi nelle sue scelte d’investimento.
Ma sull’Italia e altre 19 economie importanti del pianeta, i ricercatori di Bridgewater hanno certamente raccolto molte informazioni. A loro avviso la capacità  di crescita nei prossimi dieci anni, la «formula per il successo economico», sarà  determinata al 65% dalla competitività  e solo al 35% dal livello d’indebitamento. E l’Italia fa molto peggio nella prima graduatoria, dov’è ultima dopo Grecia, Francia e Spagna, che nell’altra dove è nella parte bassa ma non proprio in fondo. In base alla sola competitività , lo hedge fund Bridgewater prevede per l’Italia una contrazione media del Pil dell’1% per ciascuno dei prossimi dieci anni: in uno scenario di questi tipo, pochi Paesi occidentali sarebbero in grado di continuare a finanziare il proprio debito e sostenere il sistema bancario.
Alcuni dei grafici di Dalio indicano quali sono in particolare i punti deboli del Paese. L’Italia risulta ultima, ancora una volta dopo la Grecia e la Francia, nel valore che Bridgewater definisce il «lavorare duro» (in rapporto al livello di reddito). In questo indicatore rientrano dati numerici sulla media delle ore lavorate, sulla forza lavoro attiva rispetto al totale della popolazione, sull’età  effettiva della pensione e sulla reale quantità  di giorni all’anno in cui i lavoratori sono in vacanza o assenti per altri permessi.
L’Italia risulta ultima o fra le ultimissime economie per capacità  di crescita anche a causa di aspetti che Dalio definisce «culturali». Il più evidente va sotto il nome, secondo Bridgewater, di «godersela invece di raggiungere obiettivi»: vi rientra la scelta fra fattori come il dare la priorità  alla crescita o all’avere voce in capitolo nella società , alla difesa o all’avere città  più belle. Queste suonano come domande dall’esito scontato in Europa, ma non lo sono per la metà  del genere umano che vive in Asia. Fra i valori presi in considerazione c’è la convinzione che «il lavoro duro porta al successo», o sul fatto che la concorrenza sia «dannosa» o meno, oppure il senso di responsabilità  che si instilla nei bambini. Secondo Dalio, anche le preferenze della popolazione su questa serie di principi misurano la capacità  di crescita di un’economia nei prossimi dieci anni. E qui l’Italia è terzultima, davanti a Francia e Ungheria e di poco dietro a Grecia e Spagna.
Ultima poi l’Italia è anche per criteri più convenzionali come la rigidità  di regole sul lavoro, mentre risulta penultima per l’invadenza del settore pubblico e per lo spirito commerciale e sull’innovazione.
Il messaggio di Ray Dalio è chiaro. Se continua così, il Paese dei suoi progenitori continuerà  ad avere un’economia debole anche nel prossimo decennio. Ma si tratta in primo luogo di una preferenza collettiva dei suoi abitanti, forse inconsapevole ma frutto di milioni di comportamenti che si sommano. Pochi italiani vanno fieri del risultato finale. Ma cambiare strada, per ora, sembra tutta un’altra storia.
Federico Fubini


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