L’Italia e il conto amaro dell’Europa Un saldo negativo per 22 miliardi

by Sergio Segio | 6 Febbraio 2013 7:22

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Nelle notte del 16 dicembre 2005, sotto gli occhi di Tony Blair, presidente di turno del Consiglio europeo, e di Angela Merkel, Silvio Berlusconi pensò, probabilmente, di aver limitato il danno. Il bilancio europeo aumentava di poco, ma andava diviso tra gli otto Paesi dell’ex blocco sovietico, più Cipro e Malta. Anzi, all’ultimo minuto, la delegazione italiana aveva addirittura strappato 1,4 miliardi extra per i «Fondi strutturali» (investimenti per le aree più svantaggiate) e altri 500 milioni per lo sviluppo rurale.
La medicina europea, però, ha due caratteristiche: può essere amara se non si regge il confronto negoziale con i partner più forti e soprattutto agisce con rilascio lento, differito nel tempo. Oggi, in piena trattativa sulle «prospettive finanziarie» per il 2014-2020, fa testo una tabella che si può costruire elaborando i dati ufficiali diffusi dalla Commissione europea. L’Italia dal 2007 al 2011 ha già  lasciato in Europa 22 miliardi di euro, solo due meno della Francia, che ha però un reddito nazionale superiore di un quarto al nostro, e di cinque miliardi in meno rispetto al Regno Unito (che ha un Pil maggiore del 10%). Ventidue miliardi in cinque anni, una cifra più o meno equivalente al gettito atteso dall’Imu, tanto per avere un ordine di grandezza: oggettivamente non è un bel risultato. Tanto più se si considera che la struttura del bilancio europeo, nonostante sforzi e tentativi di cambiamento ormai ventennali, si adatta ancora bene a un Paese come l’Italia. Due grandi voci che coprono circa il 91% delle uscite (budget 2011): agricoltura e «crescita sostenibile», cioè i fondi di coesione per le zone arretrate. E allora chi meglio di noi? Certo la Polonia, l’Ungheria e gli altri «nuovi» dell’Est. Ma perché la Francia? Perché, volendo andare fino in fondo, la Spagna? Quando il presidente Nicolas Sarkozy assunse la guida a rotazione dell’Unione Europea si presentò davanti al Parlamento europeo di Strasburgo il 10 luglio 2008 come il «nemico dell’immobilismo» e volle cominciare dal bilancio, proprio come aveva fatto Tony Blair parlando, invece, nell’Aula parlamentare di Bruxelles il 23 giugno 2005. Fa impressione rileggere oggi quei due discorsi di insediamento tanto sono simili: liberaldemocratico e modernista il francese; socialista liberale e modernista il britannico. Tutti e due chiedevano di spendere di più nella ricerca, nell’innovazione, nella «competitività » e meno nei programmi di assistenza o di conservazione dell’esistente. Dopo di che, messe da parte le belle parole, contano le azioni politiche quasi sempre fedelmente tradotte dai numeri. Così i governi dell’era Sarkozy hanno mandato a Bruxelles negoziatori con in testa solo una cosa: tutelare i fondi a disposizione dei contadini francesi, compresi i grandi latifondisti. E i rappresentanti di sua Maestà , anche dopo Blair, evidentemente più che della «modernizzazione» si sono preoccupati di difendere l’arcaico «rebate», il rimborso dei contributi ottenuto nel 1984 da Margaret Thatcher. E l’Italia? Anche per effetto dell’accordo del 2005, i governi di Romano Prodi e poi (dal maggio 2008) ancora di Berlusconi si sono visti raddoppiare in un anno il conto di Bruxelles. Nel 2007 il «saldo operativo» tra versamenti (escluse le spese per l’amministrazione) e fondi provenienti dalla Ue era ancora fermo a 2 miliardi di euro. Meno della Germania (7,4), della Francia (2,9), del Regno Unito (4,1), persino meno dell’Olanda (2,8). Nel 2008, invece, eccoci proiettati al secondo posto della classifica dei «contributori netti» della Ue. L’Italia già  in crisi, l’Italia indebitata, l’Italia della crescita asfittica, usciva ammaccata anche dalle cifre sul bilancio europeo: il «saldo operativo» toccava 4,1 miliardi di euro proiettandoci al secondo posto nella classifica dei contributori netti, dietro la Germania (8,7) e davanti a Francia (3,8) oltre a Olanda (2,6) e Regno Unito (0,8). Da lì in poi, nel giro di altri tre anni, il «saldo operativo» è salito fino a 5,9 miliardi del 2011: in termini relativi abbiamo recuperato sulla Francia (6,4 miliardi), ma siamo ancora alle spalle del Regno Unito (5,5 miliardi)
In valori assoluti i versamenti sono passati dai 14,02 miliardi del 2007 ai 15,1 miliardi del 2008 (in questo calcolo, invece, è compresa anche la voce legata all’amministrazione). E dal 2008 al 2011 i contributi sono aumentati di altri 900 milioni, toccando quota 16 miliardi nel 2011. Gli incassi europei hanno viaggiato sulla corsia di marcia opposta, scendendo dagli 11,3 miliardi del 2007 ai 9,5 miliardi del 2011.
Questi sono i rapporti di forza (o se si preferisce le capacità  negoziali) alla vigilia del Consiglio europeo del 7 e 8 febbraio, dove si tornerà  a trattare sul bilancio per il periodo 2014-2020. E allora, meglio tenere d’occhio la sostanza. Per esempio, la rampante e ambiziosa Spagna di Luis Rodriguez Zapatero non ha mai mollato la presa sui fondi europei. Tanto che, Polonia o non Polonia, nello stesso periodo in cui l’Italia cedeva 22 miliardi, ha portato a casa un saldo in positivo per un valore di 14,5 miliardi. Adesso la Commissione europea propone, tra l’altro, di destinare, in sette anni, 80 miliardi in più per ricerca e innovazione e di orientare 84 milioni per sostenere disoccupati e nuove povertà . Benissimo, ma attenzione a chi rimane con l’assegno in mano.
Giuseppe Sarcina

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