“L’industria della carità ”: è tutto negativo nel non profit italiano?
“SAREBBE sbagliato se, arrivati fin qui, vi foste convinti a non donare più un euro, a scansare il banchetto con l’azalea e a non fidarvi più di nessuno”, scrive Valentina Furlanetto nell’epilogo de “L’industria della carità ”. Ma cosa dovrebbe fare il cittadino medio, se non fidarsi più di nessuno, dopo aver letto 230 pagine che raccontano il lato oscuro – e solo quello – del mondo di chi “fa del bene”?
Il libro della giornalista di Radio 24 (edizioni Chiarelettere) aveva suscitato molta attesa nel non profit italiano già diversi giorni prima della sua uscita. E’ infatti un evento raro che nel nostro paese si parli di questo fenomeno, di solito rappresentato con enfasi acritica o con tecnicismi incomprensibili. I due meriti della Furlanetto sono di aver scritto un’opera ricca di spunti e che si legge d’un fiato e di aver messo in luce i principali problemi che affliggono il “terzo settore”. I demeriti sono di aver fatto non poca confusione, di non aver approfondito, di aver lasciato aperte quasi tutte le domande importanti che il libro sollecita.
Il focus sfocato
La confusione riguarda il focus stesso dell’inchiesta. Pur segnalando che il terzo settore italiano comprende 235 mila organizzazioni secondo il rilevamento Istat del 2001 e che sono 457 mila quelle coinvolte dallo stesso istituto nel censimento in corso, e ricordando che “il non profit italiano vale 67 miliardi di euro, il 4,3 per cento del Pil, e dà lavoro a 650 mila persone”, il libro sembra concentrarsi solo sulle 248 ong italiane (o sezioni italiane di enti mondiali) per la cooperazione internazionale e su alcune delle più grandi organizzazioni non profit operanti in Italia (come l’Airc, l’Aism, Telethon), a volte mettendole oltretutto sullo stesso piano di enti dell’Onu (come l’Unicef), enti statali (come la Protezione civile), enti dalla storia tutta particolare (come la Cri). Restano fuori cioè una miriade di gruppi e onlus non riconosciuti dalla legge sulla cooperazione ma operanti all’estero, di cooperative sociali, di comunità , di associazioni di volontariato ecc. Un mondo variegato, complesso, che entra e esce di continuo dal libro, il quale talvolta lo considera in blocco (“i numeri (e i soldi) hanno fatto girare la testa alle ong e alle onlus”) e poi si concentra genericamente sulla “solidarietà internazionale”, per affermare che “se un tempo rappresentava una scelta per pochi idealisti che avevano deciso di mettersi al servizio del prossimo, oggi quello in mano alle ong e alle onlus è un vero e proprio business”.
Scarsa trasparenza
Ma quali sono i grandi problemi individuati da “L’industria della carità ”? Anzitutto la mancanza di trasparenza, soprattutto economica: come sono stati spesi i soldi, dov’è il bilancio? Unita ad essa, la difficoltà di conoscere i risultati concreti dell’azione delle organizzazioni umanitarie: cosa hanno fatto, chi ne ha beneficiato, cosa hanno contribuito a migliorare? E poi la diffusione di stili e comportamenti sul campo piuttosto discutibili: il gigantismo, il marketing sfrenato, il rincorrere solo le emergenze (“che rendono di più”), il cinismo degli operatori, gli sprechi (“bisogna essere efficienti, non caritatevoli”). “Abbiamo il diritto di chiedere dove vanno a finire le donazioni – afferma l’autrice – e il dovere di farlo nei confronti di chi vogliamo aiutare”. “Fino a che punto ci possiamo spingere ‘a fin di bene’?”. “Solo una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica può metterci al riparo da abbagli clamorosi e, in generale, dall’eccesso di retorica”.
Riguardo all’aspetto economico, che attraversa un po’ tutto il libro, la Furlanetto passa in esame alcuni tra i pochi bilanci pubblicati su internet, sottolineando in particolare quella che a suo giudizio è una sproporzione piuttosto diffusa tra i soldi che “se ne vanno” per la comunicazione, il marketing e la pubblicità , la raccolta fondi, il personale – che possono arrivare al 25-30 per cento del bilancio – e le spese per i “progetti”. Troppo squilibrio: un circuito perverso, sostiene l’autrice.
Qui sta la prima delusione, perché il libro non prova nemmeno a dare un’idea, ad esempio, di quale sarebbe la percentuale ideale del bilancio per quelle voci: se le grandi ong sono sempre più in lotta per ottenere visibilità mediatica, quale deve essere il loro stile e il loro investimento per questo scopo? Che cosa fa realmente il personale indicato nei bilanci? Qual è la differenza tra un’organizzazione che fa soprattutto advocacy e sensibilizzazione rispetto a una in cui predomina l’operatività ?
E quale deve essere la spesa da sostenere per organizzare una raccolta fondi su scala nazionale? Per esempio, i 4 milioni spesi dall’Airc per raccogliere fondi con la vendita delle azalee sono troppi rispetto ai 10 milioni incassati? E i 27 centesimi destinati alla raccolta fondi per ogni euro donato all’Aibi? Secondo la tesi del libro la risposta è sì, ma in questi come in altri casi il confronto con gli interessati è assente. Eppure sarebbe stata l’occasione buona per avviare la discussione.
I soldi “parcheggiati”
Un altro aspetto di natura economica che l’autrice denuncia è la prassi di molte organizzazioni di accantonare liquidità , anche proveniente da donazioni, in depositi bancari o in operazioni di borsa. Il caso segnalato, l’unico, è clamoroso: nel 2011 si scopre che 6 milioni di euro affidati dalla rete di ong “Agire” a un operatore finanziario – poi arrestato – sono spariti. Erano destinati ad Haiti, ma le associazioni avevano scelto di parcheggiarli in titoli e obbligazioni e oltretutto avevano quantomeno commesso l’ingenuità di affidarli a un agente rivelatosi truffaldino. “A parte l’eventualità di incappare nel Gatto e la Volpe – dice l’autrice – investendo si tradisce il patto di fiducia implicito che esiste tra chi chiede soldi per i poveri del mondo e i donatori. Se io faccio una donazione finalizzata a una calamità specifica, il minimo che mi aspetto è che i soldi servano per quello e vengano utilizzati nel più breve tempo possibile per dare aiuti”.
Il caso e questa considerazione sono validi, ma anche qui si sarebbero potete aprire questioni cruciali, che invece restano avvolte da una diffidenza di fondo. Quali sono i tempi ideali e quale organizzazione va messa in moto per spendere cifre così alte? Quali sono, a seconda dei casi, gli impedimenti che ne rallentano l’uso? Una portavoce di Agire prova a spiegare alcuni meccanismi, ma le sue argomentazioni vengono ritenute “deboli”. Anche nel caso del terremoto dell’Aquila, i motivi (burocratici) spiegati dal sindaco per il ritardo nell’utilizzo del milione e 200 mila euro raccolto con la canzone “Domani” non convincono l’autrice. Un peccato, perché approfondendo un po’ si sarebbe potuto scoprire che molte organizzazioni medio-grandi accantonano fondi (e non parliamo di operazioni rischiose come gli hedge fund), sia provenienti da erogazioni pubbliche che da donazioni, per i motivi più vari. Non escluso quello di mettere al sicuro il Tfr per un corpo di dipendenti che supera spesso le decine di unità e che non ha certo la sicurezza di chi lavora in enti pubblici. Forse è difficile reperire i bilanci, ma è un comportamento lecito? E’ etico? Come dovrebbe, altrimenti, essere gestita una struttura che “fa del bene”?
Stipendi alti e festini
A proposito del personale del non profit, la Furlanetto evidenzia un altro dei grandi problemi di questo mondo: il precariato perenne, le paghe spesso basse, i lavoratori selezionati in prevalenza sulla base di conoscenze o addirittura scelti nelle famiglie dei dirigenti. In altre parti del libro sottolinea però come in alcune aree del non profit si guadagna ormai come nel profit. Al di là degli stipendi d’oro di alcuni manager di ong, dei quali vengono fatti peraltro pochi esempi, la domanda a cui rispondere qui sarebbe stata: ma quanto deve guadagnare uno che lavora nel non profit in Italia?
Nel caso della cooperazione, invece, l’autrice evidenzia gli alti stipendi degli operatori umanitari (tra 5 e 10 mila euro) affermando che non è scandaloso che persone preparate, disposte a lunghe trasferte anche in zone pericolose, siano ben remunerate; lo scandalo è lo squilibrio con i redditi dei paesi poveri dove operano. “Tra il compenso di un funzionario e la mission dell’associazione ci deve essere coerenza”. Perché non andare oltre, allora, e chiedersi in cosa deve consistere questa coerenza? Gli operatori umanitari vanno pagati oppure no? E quanto? In altre parole: come se ne esce?
Tutto questo, ovviamente, senza considerare le aberrazioni dei comportamenti di alcuni operatori sul campo. La Furlanetto ne fornisce un quadro estremamente fosco attraverso le voci di quattro o cinque cooperanti di cui riporta affermazioni raccolte direttamente e diari pubblicati on line. Ne emergono cinismo, opportunismo, partecipazioni a dubbi festini, vite dorate in enclave del tutto staccate dai “problemi”; e molta rabbia di non aver potuto incidere, molte aspettative frustrate. Denunce non nuove, ma che messe così non danno esattamente l’idea di una ricerca vera e propria. Al contrario fanno pensare che la stessa operazione – con obiettivi opposti – si sarebbe potuta fare intervistando altrettanti operatori entusiasti o almeno soddisfatti del lavoro proprio e delle loro ong…
Lo stesso potrebbe dirsi per il settore delle adozioni internazionali, “un affare, un business milionario che crea appetiti”. Per sostenere questo approccio l’autrice racconta il caso dell’Etiopia (il paese con il più alto numero, dopo la Cina, di soggetti adottati), dove a causa dell’assenza di controlli del paese e dei pochi scrupoli e della disonestà di alcune ong, molti bambini sono stati letteralmente sottratti ai genitori o esplicitamente venduti ai migliori offerenti. Un caso reale e gravissimo, ovviamente, ma un po’ poco per descrivere un ambito complicato come questo.
Il cappotto per il povero
La diffidenza sulle buone intenzioni, sia del profit che del non profit – filo conduttore di tutto il libro – si estende poi, con più di una ragione legata all’eccesso di greenwashing, alla cosiddetta responsabilità sociale d’impresa praticata con molte contraddizioni dalle aziende, e alla partecipazione spesso strumentale di testimonial famosi ai problemi in cui sono coinvolti. Ma sempre con una forte riluttanza a far distinguere i “buoni” dai “cattivi”.
La diffidenza emerge persino nel trattare il destino dei vestiti usati. Anche qui, come già noto, sono state scoperte organizzazioni criminose che hanno approfittato della buona fede delle associazioni. Ma al di là di questo, ciò che viene evidenziato è il fatto che i vestiti usati vengano quasi tutti venduti e che è molto improbabile veder “passare un povero con la vostra giacca o il vostro cappotto”. Qui la domanda è: ma se quei vestiti “sono un veicolo per ricavare denaro e finanziare progetti umanitari”, dov’è esattamente il problema?
Nato dichiaratamente, a partire dal titolo, come una sorta di versione italiana de “L’Industria della solidarietà ” (Bruno Mondadori, 2009) – il libro denuncia scritto dalla giornalista olandese Linda Polman dopo una ricerca sul campo durata vari anni – “L’industria della carità ” delude insomma le aspettative ed è un’occasione non sfruttata di indagare un mondo conosciuto ancora troppo poco e male. Il libro è tradito da un eccesso di ideologia (o di idealismo) e dall’indignazione di una persona che si è occupata a lungo dell’argomento e che ora fa i conti con la negazione del suo “pregiudizio positivo” verso chi “fa del bene”.
Il non profit italiano, e il concetto stesso di solidarietà attiva, sconta una storia molto particolare e fronteggia da anni un’evoluzione tumultuosa, piena di cadute e di speranze, di innovazione e di resistenze al cambiamento. Sinceramente, meriterebbe qualcosa di più di un libro che sembra fatto solo in base a una accurata ricerca su internet, a un po’ d’archivio e al colloquio con un numero troppo limitato di interlocutori. (st)
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