L’Ilva chiede la cassa integrazione a rischio fino a 6500 posti di lavoro
Di fatto significa dimezzare la forza lavoro dello stabilimento di Taranto, «dando poche prospettive — dicono i sindacati — su quello che accadrà dopo». L’azienda lega la richiesta ai lavori necessari per adeguarsi all’Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale imposta dal Governo per limitare le emissioni inquinanti: «Investiremo — dicono — sino al 2016 due miliardi e 250 milioni, avendo una drastica riduzione della produzione». Con la chiusura dell’altoforno 5, prevista nell’Aia per il secondo semestre del 2014, e la chiusura già attuata dell’Afo 1, la produzione dello stabilimento di Taranto si riduce di un terzo passando da 30 mila tonnellate al giorno di acciaio a diecimila tonnellate.
L’Ilva però nega che si tratti di una misura «strutturale», assicurando che, terminati i lavori di ammodernamento, si tornerà alla forza lavoro attuale, al momento già decimata visto che 2.600 persone sino al due marzo sono in cassa integrazione. Esiste poi il problema del finanziamento della cassa, al momento non scontato. «Le cifre sono folli — dice il segretario provinciale della Fiom, Donato Stefanelli — l’Ilva prima di parlare di ammortizzatori deve dare conto del piano industriale e del piano di investimenti, non ancora presentati ». «Le cifre indicate dall’azienda — gli fa eco il segretario della Uilm, Antonio Talò — ci sembrano decisamente eccessive. Questa situazione non può ricadere soltanto sulle spalle dei lavoratori». Preoccupata la politica: «Il momento — dice l’assessore regionale all’Ambiente, Lorenzo Nicastro — diventa sempre più complicato».
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