by Sergio Segio | 24 Febbraio 2013 9:15
Lui fa l’ambulante, vende biancheria; il figlio Alessio un po’ l’aiuta, un po’ fa altro, qualche lavoretto in giro, se capita, quando capita. Con il resto della famiglia, vivono in un palazzo occupato, uno dei tanti. «Lo so, lo so che ci sono le elezioni – dice Agostino – anche per questo non ci hanno ancora sgomberato, aspettano di vedere come butta e poi forse arrivano e ci sbattono fuori». «Qui siamo più di cinquanta famiglie, stanno tutti a sistemarsi casa, chi deve mettere il lavandino, chi deve trovare gli allacci – continua – e penso che non saranno molti quelli che andranno a votare: quando ci stanno le riunioni si discute di come andare avanti, delle cose da fare, c’è poca voglia di parlare di politica». In un posto così ci si aspetterebbe di trovare gente incollerita, atteggiamenti combattivi, proteste. E invece l’impressione, terribile, è di una diffusa indifferenza. «Non è che non vogliamo lottare – aggiunge l’ambulante – è che i nostri problemi non si risolvono andando a votare, e poi, anche se non ho molto seguito la campagna elettorale, del diritto alla casa non parla più nessuno».
Difficile dargli torto. Anche se, alla fine, è probabile che Agostino una scappata al seggio la farà . Ma quanti sono quelli che in una grande città come Roma si sentono del tutto estranei a quest’appuntamento politico, che per molti versi rischia di essere decisivo? E’ solo quella quota fisiologica di rinuncia più o meno consapevole, quella percentuale ormai cronica di astensionismo passivo? Oppure con questa crisi che imperversa, sta crescendo quell’inerzia rassegnata che progressivamente scivola verso la catatonia politica? Di sicuro l’estensione delle povertà allarga la platea degli esclusi. Non riuscire a tirare avanti semina tanta di quell’angoscia esistenziale che non di rado finisce per ottundere anche il più elementare esercizio della ragione. Le priorità vitali sono talmente pressanti da spazzar via qualsiasi altro sentimento. E in una città come Roma, dove ormai chi vive sotto la soglia di povertà sfiora il 15% della popolazione, questa forma di regressione sociale è diventata un dato significativo. Basta farsi un giro in una mensa della Caritas, o anche spingere lo sguardo appena più in là delle consuete quinte urbane, dare un’occhiata nei parchi, nelle aree archeologiche, sugli argini del Tevere, intorno alle chiese, negli edifici abbandonati.
La città è piena di giacigli, baracche, accampamenti improvvisati, coperte e cartoni. E’ come se, accanto alla città ordinaria, ce ne fosse un’altra, segreta e misteriosa, miserabile e stracciona. Dove si rifugia una folla di povericristi, che di giorno emerge e si sbatte e di notte affonda e si nasconde. Una moltitudine dove non c’è più differenza tra bianchi, neri o gialli, stranieri o italiani, uomini o donne, vecchi o giovani o bambini. Un’umanità spenta e dolente che rappresenta un grumo di bisogni inevasi o addirittura negati.
Un’imponente domanda sociale a cui la politica si sottrae restringendo l’offerta d’aiuto, riducendo sostegni e accoglienza, chiudendo servizi. Sotto l’urto della crisi economica, della ristrutturazione dei mercati, s’indeboliscono fino a estinguersi le reti protettive pubbliche e ci ritroviamo nel pieno di una selezione «naturale». Come si può pretendere, in queste condizioni, che dal crescente disagio, dalla progressiva marginalizzazione ci si possa sentire partecipi di un appuntamento elettorale? Ci si senta coinvolti in un confronto politico tanto lontano quanto indifferente? Agostino l’ambulante ha finito di scaricare. «Adesso devo aggiustare la stufa – dice – casa è parecchio fredda e poi ieri è arrivata mia figlia con una bambina di sei mesi, ormai siamo in sette, speriamo che dopo le elezioni ci lascino stare ancora qui».
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