Le relazioni pericolose degli organismi

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La modernità  è una costruzione culturale che non coincide con il fatto che «noi non siamo stati mai moderni». È questa la ricezione del saggio che ha fatto conoscere Bruno Latour, storico della scienza, antropologo e attento etnografo della vita nei laboratori scientifici. Docente alla «Science Po Paris», Latour è una figura eccentrica nello statico panorama dei teorici della conoscenza francesi. Non nasconde di ispirarsi a Gabriel Tarde, l’antagonista di Emile Durkheim, il padre della sociologia francese che, negli ultimi anni, è stato riscoperto come l’anticipatore delle critiche al neoliberismo, in nome di una soggettività  irriducibile alle forme di controllo sociale esercitate dallo stato o dalle imprese. E non fa mistero di essere uno dei fondatori della teoria sull’azione sociale che mette al centro il concetto di rete (Reassembling the social: an introduction to Actor-network theory, Oxford University Press).
Autore di moltissimi saggi, alcuni dei quali tradotti in Italia – Non siamo mai stati moderni (Eleuthera), La scienza in azione (Comunità ) – è ritenuto uno dei maggiori analisti della produzione scientifica in epoca moderna. Il testo, scritto con Steve Woolgar, Laboratory Life: the Social Construction of Scientific Facts può considerarsi un vademecum per capire come l’industrializzazione della ricerca scientifica provochi una sorta di conformismo che inibisce la ricerca stessa. Recentemente, Latour non nasconde il suo interesse per il metodo olistico per «decrittare» la realtà , a partire dalla centralità  della questione ecologica.
Ospite dell’HangarBicocca, è stato relatore in un incontro sull’opera dell’artista Tomà¡s Saraceno.
In molti dei suoi libri, lei ha respinto con forza l’idea dello scienziato che, chiuso nel suo laboratorio, giunge a scoprire una qualche verità  sul mondo. Ha spesso scritto che nell’era della produzione di massa, anche tra gli scienziati ci siano gerarchie e divisioni del lavoro. Da alcuni anni a questa parte, ci sono studiosi che sottolineano come la cooperazione, la condivisione delle informazioni, la flessibilità  delle mansioni presenti, tipiche della ricerca scientifica siano le stesse del modo di produzione capitalistico contemporaneo. Cosa ne pensa di questa tesi?
Non credo che ci sia un solo modo di lavorare nella ricerca scientifica e nelle imprese capitalistiche. Ce ne sono molti, e diversificati tra loro. È sempre stato così sia per l’attività  scientifica che per la produzione di merci. Per quanto riguarda la scienza, segnalo che il lavoro dei ricercatori che studiano i movimenti degli iceberg che si staccano dall’Artico non ha nulla a che vedere con quanto può fare un vulcanologo in un’altra parte del mondo. E non c’è similitudine tra il vulcanologo e quanto fa un etnografo in Sicilia. Non mi convince in nulla invece la tesi che si possa comparare il funzionamento del Cern con quello di una fabbrica. La ricerca scientifica ha logiche diverse da quelle che presiedono la produzione di merci. Più interessante, invece, è quanto argomenta il movimento della «slow science». Da anni, molti studiosi affermano che la tendenza a standardizzare il lavoro dei ricercatori nuoce alla scienza. Far funzionare un laboratorio come una fabbrica è semplicemente assurdo.
La proprietà  intellettuale è un tema che ha occupato la scena nella discussione pubblica. Da una parte ci sono i suoi sostenitori, dall’altra il movimento dell’open source ha come obiettivo la condivisione delle informazioni e della conoscenza. Cosa ne pensa del conflitto tra queste due visioni nella produzione e circolazione della conoscenza?
Per quanto riguarda la proprietà  intellettuale, non sono così convinto della sua centralità  nella discussione pubblica. Certo, tra industrie discografiche, cinematografiche, del software e open source ci sono conflitti. Ma non così determinanti da condizionare quei settori. È invece scandalosa l’appropriazione da parte dell’industria editoriale della conoscenza prodotta grazie agli investimenti pubblici. Spesso accade che un articolo su una scoperta scientifica, finanziata con le tasse dei cittadini, venga pubblicato da una rivista e che per leggerlo si debba pagare. E accade spesso poi che quella rivista venga acquistata da una biblioteca pubblica. Il movimento della slow science, a cui partecipo come ricercatore sociale, studioso, docente di una università  pagata con i soldi dei contribuenti, ha fatto proposte affinché sia impossibile questa appropriazione privata di conoscenza scientifica, prodotta con denaro pubblico.
La scienza è una particolare forma di arte, sostengono alcuni studiosi. L’arte è una particolare forma di scienza, rispondono altri. Cosa ne pensa?
In entrambi i casi ci troviamo di fronte a un errore. Chi alimenta la confusione tra arte e scienza ha la mente disturbata. Potrei dire che è un folle.
Eppure ci sono stati autori – ad esempio Pierre Bourdieu – che hanno sostenuto che il procedimento cognitivo per produrre un’opera d’arte non sia molto diverso da quello manifestato da chi si occupa di ricerca scientifica. E Bourdieu non era certo un folle…..
Questa è un’altra questione. Possiamo dire che sono due estetiche – nel significato originario del termine di «sensazione», di «percepire la realtà  attraverso i sensi» – che hanno punti in comune. Solo questo però autorizza a stabilire confronti, omologie, similitudini tra scienza e arte. E solo questa accezione originaria del termine può dunque stabilire un rapporto. Ad esempio, gli scienziati discutono spesso dell’estetica degli strumenti usata; oppure di artisti che parlano della loro pratica come un lavoro di investigazione e scoperta del mondo. Sono convinto, però, che non ci siano altri punti di contatto tra queste due forme di attività . Sono invece convinto che tanto la scienza che l’arte possano contribuire a promuovere una sensibilità  politica attorno al tema dell’ecologia. Per questo ritengo che le opere di Tomà¡s Saraceno, oggetto dell’incontro in corso a Milano, nell’HangarBicocca, siano importanti proprio per stimolare questa attenzione. Detto questo, va respinta ogni confusione tra scienza e arte.
La metropoli è la più importante forma di abitare nelle società  contemporanee. Ma anche in questo caso ci troviamo di fronte a diffusi processi di enclosures degli spazi pubblici. Le «comunità  recintate» per ricchi sono una presenza ormai costante tanto nel Nord che nel Sud del pianeta. Allo stesso tempo anche il corpo e il Dna conoscono processi di enclosures. Come nella scienza, la privatizzazione dello spazio (o della conoscenza) è la manifestazione di una inedita e rinnovata accumulazione originaria del capitale. Nel futuro, dunque, la privatizzazione di ogni aspetto della nostra vita, anche di quella biologica, sarà  la regola dominante?
Non prevedo il futuro. Sono però convinto anche io che il trend dominante sia l’appropriazione privata di ogni aspetto della vita sociale e biologica. Vedo però manifestarsi una reazione altrettanto forte che va in direzione contraria. Propongo, assieme ad altri, un differente approccio, che definisco ecologico. Per capire il funzionamento di un organismo non puoi isolarlo dall’ambiente in cui vive, né separarlo dalle connessioni che ha con altri organismi simili o diversi. Sono questi legami a svolgere un ruolo fondamentale nel suo sviluppo. Potremmo estendere questo concetto alla società , dove il singolo è immerso in una rete di relazioni sociali, affettive che costituiscono, appunto, un insieme unitario. E che per spiegare i comportamenti sociali devi comunque partire da questo approccio unitario. Il fatto che ci siano forze che puntano a «recintare», «privatizzare» la vita non può cancellare un altro fatto, altrettanto importante: la crescita di un inedito «comunismo» che entra in scena attraverso la porta di servizio rappresentata dalla proliferazione delle istanze ecologiche. È il conflitto tra la logica economica e la visione ecologica che occupa il centro della scena nella tarda modernità .
La rete è una fascinosa forma di organizzazione – economica, politica. Tutti ne scrivono e ne parlano. I movimenti sociali indicano nella Rete le forme di organizzazione da sviluppare per le loro mobilitazioni; le imprese parlano di organizzazione reticolare; il web, cioè una rete di computer, è ritenuto il nuovo medium universale dopo aver scalzato dallo scranno la televisione. Ma la Rete, più che una forma di organizzazione «liquida» si caratterizza per essere una forma di organizzazione molto rigida, perché centralizza il coordinamento e decentralizza le operazioni. È forse la rete una più sofisticata forma di controllo sociale?
Su questo sono d’accordo con lei, anche se io preferisco usare il termine in maniera più limitata di quello che lei fa quando allude al conflitto tra pratiche reticolari, il mercato e la gerarchia. È indubbio che il concetto di rete catturi l’attenzione. Per me, è un concetto che può spiegare cosa accade quando un singolo o una associazione si pongono un obiettivo da raggiungere, riuscendo ad aggregare un numero tendenzialmente illimitato di altri individui o associazioni, che aderiscono a quella campagna, condividendone le motivazioni e, tuttavia, mantenendo un’ampia autonomia operativa e di elaborazione.
Sulla possibilità  che il modello del network possa diventare una nuova forma di controllo sociale, concordo con quanto ha scritto Luc Boltanski, quando ha segnalato che la rete è una gradevole forma di organizzazione che può rivelare anche un suo lato distruttivo. Sono rischi che non possono essere ignorati.

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Meglio le città  volanti di quelle asfaltate

Bruno Latour è stato invitato dall’Hangar Bicocca ad un incontro/conversazione, aperto al pubblico, con Tomà¡s Saraceno (insieme a Andrea Lissoni, curatore, Joseph Grima, direttore Domus, Molly Nesbit, storica dell’arte), per un approfondimento sul tema proposto dalle installazioni spettacolari dell’artista argentino: l’interazione fra individui e spazi comunitari, tra collettività  e metropoli eccentriche. Declinato in forme non soltanto urbanistiche e architettoniche, l’argomento affrontato da Saraceno – anche qui, all’HangarBicocca, con la stupefacente città  volante di «On Space Time Foam» – trasforma l’arte in una visione utopica a tutto tondo e coinvolge diversi ambiti culturali, dalle teorie della fisica agli esperimenti di psicologia sociale. Il mondo sospeso ed ecosostenibile, fuoriuscito dalla fervida fantasia di Saraceno sulla scia di architetti e intellettuali come Buckminster Fà¼ller, Yona Friedman, Frei Otto e Bruno Munari, è stato molto amato dal pubblico: fino a oggi, sono stati centomila i visitatori registrati all’HangarBicocca. Tanto da indurre a prorogare l’installazione fino al 17 febbraio. Dopo, sarà  la volta del progetto espositivo dell’artista e regista thailandese Apichatpong Weerasethakul. La mostra «Primitive», a cura di Andrea Lissoni, si terrà  dal 7 marzo al 28 aprile.


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