by Sergio Segio | 12 Febbraio 2013 7:37
CITTà€ DEL VATICANO — La vicenda dell’ultimo conclave, vista a posteriori, somigliava al racconto di Edgar Allan Poe La lettera rubata, che i poliziotti cercano ovunque smantellando pavimenti e pareti e l’intero appartamento finché l’ispettore Dupin ha un colpo di genio e scopre che stava nel posto più in vista della casa: nel salotto, giusto sopra la mensola del caminetto. A forza di cercare il candidato nascosto, e con buona pace delle varie regole enumerate da innumerevoli esperti addentro alle Sacre Stanze — mai un teologo, mai un curiale, mai un tedesco —, l’evidenza potè scorrere serenamente davanti agli occhi di (quasi) tutti finché il curiale teologo tedesco si affacciò sorridente dalla Loggia delle benedizioni di San Pietro. Perché le «regole» dedotte dal passato non funzionano, nella Cappella Sistina. E, prima di ogni considerazione «geopolitica» o «strategica», i 117 cardinali elettori, il mese prossimo, si guarderanno anzitutto in faccia chiedendosi la cosa essenziale: chi ha le spalle abbastanza larghe per reggere, ora, la barra della Chiesa?
A questa domanda, ieri, ha cominciato a rispondere per primo Benedetto XVI. Ai piani alti del Palazzo apostolico invitano a leggere con attenzione la declaratio del pontefice. Un testo scritto in latino di suo pugno e che solo all’ultimo è uscito dall’Appartamento per essere tradotto in sei lingue. Parole meditate da mesi e di continuo — iterum atque iterum — e che non indicano il successore, ovvio, ma ne tracciano il profilo. Qui non c’entrano la viltade dantesca di Celestino V né la depressione del Papa morettiano né una ipotetica malattia negata da tutti, Oltretevere. E non c’è nemmeno distanza dal predecessore Giovanni Paolo II, che rimase al suo posto nonostante il Parkinson. Benedetto XVI scrive d’essere «ben consapevole» che in ministero petrino «deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando». E «tuttavia», scrive, «nel mondo di oggi» — e quindi a differenza degli ultimi anni di Wojtyla — bisogna avere «nel corpo e nell’animo» quel «vigore» necessario ad affrontare «rapidi mutamenti» e «questioni di grande rilevanza per la vita della fede». Benedetto XVI affida al successore l’eredità del suo impulso riformatore. Non una resa, ma un passaggio di testimone: ora tocca a una guida «vigorosa» che permetta alla Chiesa di affrontare i «rapidi mutamenti» del presente. Benedetto XVI ha preso la sua decisione «dopo il viaggio in Messico e a Cuba», ha scritto sull’Osservatore Romano il direttore Giovanni Maria Vian: sarebbe quindi dalla fine di marzo 2012. Di certo meditava da mesi.
Questi, Oltretevere, sono momenti di massima prudenza. Corridoi silenziosi, passi felpati. Pochissimi lo sapevano, certo la maggior parte dei cardinali presenti ieri era sinceramente sconcertata, alcuni si sono fatti tradurre le parole latine perché pensavano di aver capito male. Ma alcuni nomi di cardinali «papabili», è inevitabile, già filtrano. Ratzinger compirà 86 anni il 16 aprile, la successione era comunque nell’ordine delle cose. Riflessioni maturate negli ultimi mesi. Tenendo conto un particolare importante: lo stesso Benedetto XVI nel 2007 aveva modificato le regole di elezione al conclave per mantenere fisso il quorum di maggioranza a due terzi — anche nel caso del ballottaggio previsto dopo 34 scrutini — ed evitare il rischio che un pontefice, come prevedeva la riforma di Wojtyla, potesse essere eletto a maggioranza del 50 più uno oltre la trentaquattresima votazione. Niente spaccature, nella Sistina. Il Papa deve tenere unita la Chiesa e quindi avere i voti di gran parte del Collegio cardinalizio: nel caso, almeno 78 su 117. Chi ha abbastanza «vigore» da raccogliere una stima internazionale così vasta, tra i confratelli?
La prima immagine è forse la più suggestiva: il cardinale filippino Luis Antonio Tagle, appena 55 anni, che nell’ultimo concistoro di fine novembre — quello convocato per «riequilibrare» in senso internazionale il Collegio dopo tante nomine italiane — s’inginocchia davanti a Ratzinger per ricevere la berretta cardinalizia ed è scosso dai singhiozzi mentre il Papa gli parla a lungo e lo abbraccia e gli posa le mani sulle guance ad accarezzarlo. L’arcivescovo di Manila è una personalità emergente che starebbe all’Oriente e alla Cina come Wojtyla all’Est Europa, molto amato e «pastorale»: «Per la Chiesa l’umiltà non è una strategia, è il modo di essere di Gesù, non abbiamo scelta diversa». Tra i nomi più ripetuti, comunque, c’è anzitutto quello del cardinale canadese Marc Ouellet, 68 anni, considerato «papabile» (ma «ovviamente non mi considero a un tale livello», si schermì) fin da quando Ratzinger lo chiamò alla guida di un dicastero chiave come la Congregazione dei vescovi. Teologo e poliglotta, fa parte del gruppo di Communio, la rivista fondata nel ’72 da Ratzinger e Hans Urs von Balthasar, e il Papa gli ha affidato uno dei temi più urgenti del pontificato: fu lui, per dire, a guidare la «veglia penitenziale» durante il simposio sulla pedofilia nel clero organizzato a Roma dalla Gregoriana e sempre l’anno scorso rappresentava il Papa al congresso eucaristico di Dublino; durante la visita, delicatissima dopo gli scandali nella Chiesa irlandese, incontrò anche le vittime degli abusi. Del gruppo di Communio fa parte anche il cardinale Angelo Scola, 71 anni, altro candidato «forte», il più quotato e internazionalmente conosciuto fra i cardinali italiani assieme al grande biblista Gianfranco Ravasi, presidente uscente del pontificio Consiglio della Cultura, anche se negli ultimi anni è cresciuta la stima generale nei confronti del cardinale Angelo Bagnasco, dottrina «sicura» e ottimo profilo «pastorale».
Nel collegio cardinalizio, del resto, sono rappresentati cinque continenti con 66 Paesi, 48 dei quali hanno cardinali con meno di 80 anni e quindi «elettori» in un eventuale conclave. E ora, tra i 117 «elettori», 61 sono europei, 14 dell’America settentrionale, 19 dell’America Latina, 11 dell’Africa e altrettanti dell’Asia, 1 dell’Oceania. E la nazione più rappresentata è sempre l’Italia con 28 elettori, seguita da Usa (11), Germania (6) e Brasile (5). Però, se le questioni di «nazionalità » o «geopolitiche» passano in secondo piano, i porporati del nostro paese rischiano di pagare le conseguenze dello scandalo «Vatileaks», percepito dal resto del mondo ecclesiastico come una bega essenzialmente «italiana». Le considerazioni «geopolitiche» contro un «Papa americano», peraltro, non erodono le possibilità del cardinale Timothy Dolan, l’arcivescovo di New York al quale Benedetto XVI ha affidato l’onore di aprire il Concistoro del febbraio 2012 con una relazione («entusiasmante, gioiosa e profonda») sulla nuova evangelizzazione «che si compie con il sorriso, non con il volto accigliato».
Sempre nella linea di continuità col Papa c’è anche il cardinale Christoph (von) Schà¶nborn, coltissimo allievo di Ratzinger, il discendente di un’antichissima famiglia dell’aristocrazia boema che per il conclave del 2005 arrivò a Roma in treno, tirando da solo un trolley a Termini, in clergyman e basco, «sa dove sono i taxi?». Già allora considerato fra i papabili, è un riformatore equilibrato, all’avanguardia nella lotta alla pedofilia: fino a criticare la «vecchia guardia» curiale. Del resto, dalla classica attesa del «Papa nero» (tra gli africani il più in vista è il ghanese di Curia Peter Turkson, 64 anni) al candidato latinoamericano (il brasiliano Odilo Scherer) fino ai curiali (il cardinale argentino Leonardo Sandri, il francese Jean Louis Tauran) la rosa (teorica) è ampia. I cardinali cominceranno a tirare le somme durante la «sede vacante»: guidata dal cardinale Camerlengo, Tarcisio Bertone. Magari pensando a ciò che Benedetto XVI ha detto ai seminaristi venerdì, quando ha associato il primato di Pietro al martirio: «La Chiesa si rinnova sempre, rinasce sempre. Il futuro è nostro». E ha ripetuto nel suo ultimo «tweet», domenica, attingendo all’Angelus: «Dobbiamo confidare nella grande potenza della misericordia di Dio. Siamo tutti peccatori, ma la Sua grazia ci trasforma e ci fa nuovi».
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