Lavoro e Impresa contano poco. Un quarto del Pil fuori dalle urne
A parole siamo orgogliosi di essere (ancora) il secondo Paese industriale d’Europa ma quando andiamo a votare il peso della coalizione «Impresa-Lavoro» conta poco. Eppure la constituency che abbraccia imprenditori, fornitori e operai determina un quarto del Pil del Paese, dà lavoro al 28,5% degli occupati e vale come minimo 6,5 milioni di voti. Come se non bastasse da noi operano le rappresentanze dei datori di lavoro e dei dipendenti più forti e radicate d’Europa. Infine se diamo un’occhiata ai curricula dei principali protagonisti della politica troviamo che non sono certo a digiuno di vita d’impresa. Silvio Berlusconi deve il suo successo all’ottima prova di sé fornita come imprenditore televisivo e pubblicitario, Mario Monti è identificato con l’università Bocconi dalla quale esce una buona quota del top management dell’industria italiana ed è stato commissario europeo alla concorrenza e, infine, Pier Luigi Bersani, nella veste di ministro delle Attività produttive, è stato estensore di «Industria 2015».
E allora come si motiva la contraddizione tra insediamento delle imprese e loro debolezza politico-elettorale? Lo storico Giuseppe Berta la spiega con la riduzione del loro peso nell’economia e con il drastico calo delle tute blu («in una grande azienda manifatturiera come la Dalmine, che ho visitato di recente, gli addetti alla produzione sono solo 200»). Una circostanza confermata dal sorpasso in casa Cgil dove la Filcams, la categoria del commercio e dei servizi, ha superato per iscritti la Fiom. Detto dei fattori quantitativi Berta però ci tiene a sottolineare come l’industria, pur con le penne abbassate, resti «un’isola di modernità , il nostro anello di congiunzione con l’economia internazionale». E al tempo stesso un benchmarking costante, un settore costretto a confrontarsi con i concorrenti europei e di conseguenza a cercare di migliorare. Ristrutturandosi continuamente e applicando persino il toyotismo per azzerare gli sprechi. Un caso in cui la coalizione «Lavoro-Impresa» si è mobilitata è stato quello dell’Ilva, quando davanti al rischio di chiudere il più grande stabilimento industriale italiano e di dover comprare tubi e laminati dall’estero c’è stata una reazione compatta delle diverse componenti. «Ma siccome l’industria è condannata a giocare in avanti e non a difendere lo status quo — chiosa Berta — è necessaria ora una visione capace di indicare una grande alleanza internazionale per l’Ilva e una prospettiva per il porto di Taranto».
In campagna elettorale, più che un endorsement pro-industria da parte di questo o quel candidato di peso, la partita è rimasta in mano a singoli candidati. Alberto Bombassei, ex vice presidente della Confindustria e testa di lista per Monti in Veneto e Lombardia 2, parla spesso di modello tedesco da copiare proprio per la capacità di mettere l’industria e i sindacati in cima all’agenda. Edoardo Nesi, ex imprenditore tessile e ora scrittore di successo, nei suoi libri ha sempre raccontato le virtù del modello pratese d’antan in cui operai e imprenditori erano dalla stessa parte e dominavano il mercato. Ora da candidato per Scelta Civica in Toscana propone agli artigiani di puntare sull’innovazione. Raffaello Vignali (Pdl) da deputato ha voluto fortemente l’approvazione dello Statuto delle imprese e giustamente lo rivendica negli incontri con le aziende. La cosa più sorprendente forse però viene da una ex sindacalista Cgil, Valeria Fedeli, che candidata in Toscana per il Pd ha fatto della difesa del made in Italy il leit motiv della sua campagna in cui incontra alternativamente un giorno consigli di fabbrica e l’altro gli amministratori delegati delle aziende.
In contemporanea all’apertura dei comizi abbiamo assistito anche a uno sforzo di elaborazione da parte delle associazioni. La Confindustria ha steso un piano per la crescita, la Cgil ha messo giù un Piano del lavoro. Senza entrare nel merito delle proposte la verità è che stanno pesando pochissimo nel dibattito elettorale e sull’orientamento dei partiti. In più l’idea della Confindustria di alzare l’Iva non è piaciuta a un pezzo del mondo industriale (Centromarca e Federalimentare) e ha creato malumori dentro Rete Imprese Italia, con il suo portavoce Carlo Sangalli che ha immediatamente stroncato la proposta. L’aumento dell’Iva oltre ad avere un effetto depressivo sui consumi delinea — è la tesi di Sangalli — una spaccatura nel mondo industriale tra chi esporta e quindi può infischiarsene di cosa accade sul mercato interno e chi invece vive della domanda italiana e si vedrebbe di nuovo danneggiato.
Commenta Innocenzo Cipolletta, economista e storico direttore generale della Confindustria: «Nella debolezza del mondo dell’impresa e del lavoro conta anche il fatto che gli attori sono diventati stanchi, non lasciano traccia e non riescono a essere portatori di un messaggio che può interessare». E aggiunge: «L’idea che sta dominando la campagna elettorale è risolvere tutto promettendo di abbassare le tasse. Così sparisce ogni altro fattore come il lavoro, la produzione, la ricerca e l’industria». È evidente che la pressione tributaria è arrivata a livelli insopportabili ma l’equazione meno tasse uguale più ripresa non è dimostrata. «La lobby dei ricchi — continua Cipolletta — però si sta mobilitando con maggiore efficacia rispetto agli industriali e ha monopolizzato la comunicazione. Così passa il messaggio che la politica economica si fa solo con il fisco». Nel frattempo è venuta meno una narrazione della stessa figura dell’imprenditore che investendo sulla sua azienda contribuisce all’avanzamento di una intera comunità . «Oggi anche in virtù dell’egemonia culturale degli economisti bostoniani la parola “spesa” è diventata tabù, ma certe spese come gli investimenti sono assolutamente necessarie».
Cipolletta mette il dito nella piaga. Nonostante siamo un Paese «offertista», dotato di una buona struttura industriale di offerta, non riusciamo né a Roma né a Bruxelles ad impostare un’agenda coerente con il nostro Dna. A volte sembriamo vergognarcene, quasi non fosse sufficientemente moderno. «Così facendo però i mercati finanziari si sono abituati a non quotarci più come un paese industriale, a differenza della Francia» annota Alessandra Galloni, giornalista del Wall Street Journal. Lo stesso Monti rispetto alla collocazione al centro dello schieramento politico ha un basso numero di industriali in lista anche nei collegi del Nord. Il professore comunque non si definirebbe mai un offertista benché a Bruxelles abbia operato a lungo per rendere più aperti i mercati e sanzionare le posizioni monopolistiche. Cioè per favorire l’imprenditoria sana.
La logica del programma Industria 2015, che con un governo Bersani vedrà un rilancio, invece è sicuramente dalla parte dell’offerta. E a suo tempo fu criticata da Francesco Giavazzi perché riprendeva una certa politica industriale dirigista alla francese, come il piano Beffa elaborato grosso modo nello stesso periodo (2006). Fino a ieri il Pd era stato molto parco nel parlare di Industria 2015 mentre sulle pagine dell’Unità tornava spesso l’idea di rilanciare la proprietà pubblica. Bersani deve aver capito che lasciava marcire una proposta valida, e ieri a Torino ha riverniciato Industria 2015 prorogandola al 2020 e inserendola tra i 5 punti «per la crescita». E comunque le cose più sensate in questi giorni di propaganda elettorale e facili promesse le va dicendo Michele Tronconi, presidente dello Smi, l’associazione che raggruppa gli industriali del sistema moda. Ha definito l’Italia «un Paese che celebra l’industria più come immagine romantica che come realtà effettiva, un posto dove quando si parla di made in Italy sembra che si evochi l’alzabandiera e poi quando si chiede di affrontare le necessità reali tutti girano le spalle». È scaduto il contratto di lavoro dei tessili e Tronconi ha avuto il coraggio di dire ai sindacati la verità : «Ma di cosa parliamo se intanto l’industria chiude? Piuttosto cerchiamo di trasformare la contrattazione collettiva in una politica industriale dal basso che affronti i veri problemi».
E qui arriviamo al fronte del lavoro. In qualsiasi assemblea un sindacalista, sia anche di Cisl o Uil, fatica a parlare di lavoro & impresa e non sposerebbe mai l’idea di una coalizione di interessi. Commenta Nesi: «La cultura del conflitto resta forte, le ideologie del Novecento non sono morte e lo capisci anche in campagna elettorale». Così la coalizione vive solo a livello micro, in fabbrica, dove già si mette in atto quella politica industriale dal basso che auspica Tronconi. L’idea di una complicità e di un’alleanza tra impresa e lavoro sta marciando e lo dimostrano le centinaia di accordi che nel Lombardo-Veneto sono stati conclusi anche su materie delicate come i premi antiassenteismo, la flessibilità e i lavoratori jolly con più mansioni. Ma tra i territori e il cielo della politica per ora c’è un muro.
Dario Di Vico
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