by Sergio Segio | 17 Febbraio 2013 8:52
L’AQUILA — Era fragile come un castello di carte, la Casa dello Studente dell’Aquila, quando intorno al 1994 passò dalle mani di un imprenditore privato a quelle dello Stato: prima all’Università e poi alla Regione Abruzzo. E siccome all’epoca era soltanto un deposito di medicinali con alcuni uffici, l’ente pubblico decise di spendere altri soldi per ristrutturarlo, «per adeguarlo all’esigenza di ospitare gli studenti» e «per metterlo in sicurezza» come recitava il bando pubblico dell’epoca.
Ieri, il giudice del capoluogo abruzzese ha decretato — nella sentenza di primo grado — che proprio quella ristrutturazione fu l’arma del delitto che uccise gli otto ragazzi travolti da solai, travi e macerie la notte del sisma, il 6 aprile 2009. Il terremoto fu dunque la miccia, l’innesco, ma non la causa scatenante del crollo (tanto che un edificio gemello a pochi metri di distanza è rimasto integro). La “palazzina Angelini” invece era talmente fragile da non essere nemmeno adeguata alla normativa antisismica degli anni Cinquanta. Ma nessuno se ne era accorto. Non solo, perché i cadaveri il 6 aprile sono spuntati lì dove si era dato corso alla ristrutturazione, colpevole di aver ulteriormente appesantito e compromesso travi e solai. E quelle camere nuove, realizzate nel 1999, appena dieci anni dopo sono diventate tombe. Il giudice Giuseppe Grieco, ieri pomeriggio, in un aula container del palazzo di giustizia provvisorio dell’Aquila, davanti a una folla di genitori e parenti delle vittime, ha condannato a quattro anni di reclusione — per omicidio colposo plurimo — Bernardino Pace, Tancredi Rossicone e Pietro Centofanti (i tre ingegneri
che si occuparono della ristrutturazione dello studentato) e a due anni e sei mesi Pietro Sebastiani (il presidente della commissione collaudo di quel restauro). Assoluzione per altri quattro imputati (su richiesta della stessa Procura) e stralcio per lo storico progettista del palazzo, Claudio Botta, incapace di sostenere il processo a
causa di una malattia, mentre il costruttore della palazzina è deceduto ormai da anni. Il giudice ha stabilito anche un risarcimento danni, in via provvisionale, per circa due milioni di euro per i parenti delle giovani vittime.
«Non appare possibile invocare, in tal caso, la buona fede degli imputati — ha detto nella sua requisitoria il pm Fabio Picuti — quando essa si traduce in colpevole ignoranza sullo stato preesistente dell’edificio: non si trattava, infatti di debolezze intrinseche che solo la “prova” del terremoto avrebbe potuto evidenziare. Si trattava invero di debolezze evidentissime e agevolmente verificabili nell’anno 1999 all’epoca della progettazione e dell’esecuzione dei lavori di “ridistribuzione interna delle camere”, se solo gli imputati avessero osservato il dettato normativo e avessero avuto voglia di guardare il progetto originario dell’edificio. Sul punto nulla è più grave ed efficace delle parole pronunciate dal perito Mulas». Ecco cosa disse il perito in aula durante una delle ultime udienze di questo processo: «Quello che qui stringe davvero il cuore è che bastava aprire la prima pagina della relazione dell’ingegner Botta per vedere che mancavano le forze orizzontali. Bastava leggere la prima pagina. Cioè bastava aprire il progetto. Non bisognava fare conti, non bisognava fare nulla, bisognava leggere il progetto, leggere la prima pagina del progetto e oggi non saremmo qui a piangere otto ragazzi».
Rabbia e commozione in aula, tra i parenti dei ragazzi scomparsi (Luca Lunari, Marco Alviani, Luciana Capuano, Davide Centofanti, Angela Cruciano, Francesco Esposito, Hussein “Michelone” Hamade e Alessio Di Simone). Tra il pubblico c’era anche Shahin Hisham, compagno di stanza di Michelone che la notte del sisma cercò di convincerlo a uscire dalla stanza dopo le prime scosse. «Io vado a dormire da un’altra parte, vieni con me». E l’amico rispose: “Non sono morto a Gerusalemme, non morirò neanche qui”. Ma non è andata così.
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