La verità  è un errore

by Sergio Segio | 14 Febbraio 2013 8:30

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Ho qualche dubbio che i filosofi – come si sente dire in giro – conoscano i sentieri della felicità  e ci accompagnino per mano lungo quegli ameni percorsi. Ma un tale sospetto non deve indurre a gettarci tra le braccia dei torturatori del concetto, dei paranoici del pensiero, attenti a che nulla del reale sfugga alla loro occhiuta attenzione. La filosofia ha molto di problematico, di sfuggente, soprattutto oggi in cui le certezze sono messe in discussione alla radice. E a pensarlo, fra gli altri, con un percorso molto originale, è Carlo Sini che sta per compiere 80 anni. Allievo di Emanuele Barié ed Enzo Paci, per decenni professore di teoretica alla cattedra di Milano, Sini sta pubblicando per Jaca Book la sua intera opera. Dove ha sparso i suoi interessi: nel mondo antico, che è all’origine – almeno in Occidente – del passaggio denso di conseguenze dall’oralità  alla scrittura; in quello moderno sovrastato da Spinoza ed Hegel e infine in quello contemporaneo dal quale affiorano i nomi di Husserl, Peirce e Wittgenstein.
«È un quadro veritiero, fatalmente approssimativo quello che lei riassume. Ma in fondo l’ultima parola non è mai la nostra. Diceva Peirce: il significato della mia vita è affidato agli altri».
Ma gli altri possono avere molti pregiudizi.
«Il che prova che la verità  non è mai qualcosa di definitivo, siamo sempre in errore. In cammino. Non a caso io parlo di “transito della verità ”».
A nessuno piace l’errore. La filosofia greca e poi il cristianesimo ci hanno insegnato a diffidare dell’errore e del peccato, suggerendo i modi per evitarli.
«C’è in queste filosofie o visioni del mondo un’idea di perfezione che ha provocato danni e fraintendimenti. E tutto ciò è nato dalla pretesa di affidare alla scrittura il ruolo di cardine su cui l’Occidente ha fondato il proprio sapere».
Prima i saperi si costituivano oralmente. Poi arriva la scrittura. Tutto diventa più semplice. Perché diffidarne?
«Non è una diffidenza, ma la consapevolezza che l’introduzione della scrittura modifica la nostra percezione del mondo. Il Logos, di cui parlano i greci, non potrebbe sussistere senza la scrittura».
Perché?
«Per il semplice motivo che ogni scrittura ha un supporto che è fuori dal corpo di chi parla. La scrittura – diversamente dall’oralità  – ci pone di fronte a un sapere oggettivo che va interpretato. Quando è la voce a trasmettere il sapere, non c’è separazione o distanza tra ciò che diciamo e il mondo che lo accoglie e di cui facciamo parte. Nella scrittura invece va ravvisata quella radice oggettiva che si svilupperà  con la scienza».
Questo è un passaggio ulteriore.
«È una continuità . Senza la scrittura alfabetica e matematica – che sono scritture per tutti – non avremmo avuto l’universale e quindi la scienza. L’universale – che i greci hanno chiamato Logos – ha determinato il corso del sapere occidentale. È stata la nostra forza, la nostra potenza, ma anche la nostra superstizione e il nostro equivoco».
Capisco la potenza, ma perché superstizione ed equivoco?
«Per la semplice ragione che sia la scienza che il senso comune pensano che ci sia un mondo fuori di noi che possiamo conoscere».
Effettivamente è così: da un lato la realtà  dall’altro noi che l’avviciniamo e la conosciamo. Se vuole, molto rozzamente, siamo in una delle tante versioni del realismo.
«Posizione ingenua. Perché o noi facciamo parte di quella realtà  oppure è illusorio pensare di conoscerla».
Eppure, se non riuscissi a distinguermi dalla realtà  esterna, allo stesso modo, non potrei conoscerla.
«Obiezione giusta. Nel senso che noi siamo parte della realtà  pur distinguendoci da essa. Siamo parte della verità  ma non siamo la verità ».
Un bel paradosso. Allora cosa siamo?
«Siamo nella differenza del sapere, o meglio siamo in ciò che chiamo “l’essere in errore”. Verità  ed errore sono in qualche modo due facce della stessa medaglia ».
Anche la scienza partecipa della verità  e dell’errore. Ne fa esperienza, nel senso che corregge continuamente l’errore.
«Il lavoro della scienza è meraviglioso, va bene così, ne beneficiamo tutti. Sarebbe insensato rifiutare la scoperta di una cura contro il cancro o condannare
un treno perché copre distanze lunghe in tempi sempre più brevi. Altra cosa è l’idea che gli scienziati per lo più si fanno del loro lavoro. Qui prevale quello che Husserl chiamava il pregiudizio “naturalistico”. Ossia il riferimento ingenuo e inconsistente a un misterioso mondo che è “là  fuori” e a un ancor più misterioso “qui dentro”».
Lei, insomma, mette in discussione il modo tradizionale di concepire il dentro e il fuori, il soggetto e l’oggetto, la realtà  e la coscienza. Dove collocherebbe tutto ciò?
«Nella vita che si svolge e che si traduce negli innumerevoli archivi dell’accaduto, i quali ricompongono di continuo il passato in nuovi archivi e mappe per il futuro».
Vedo che usa la parola “archivio”. Immagino che non sia solo il deposito delle conoscenze al quale attingiamo.
«È qualcosa di più strategico, è il modo di venire alla luce della verità  pubblica».
I filosofi hanno a volte il vizio di rispondere a una complicazione con una complicazione ulteriore. Cos’è la verità  pubblica?
«È quella, per esempio, che in questo momento io e lei pratichiamo in questa conversazione».
Una conversazione che al lettore potrà  apparire troppo tecnica.
«Un margine di oscurità  è preferibile a insulse certezze. E poi distinguerei tra competenza e sapere, anche se tra loro sono connessi. Una competenza analitica la posso apprendere anche da un computer opportunamente programmato; il sapere in senso complessivo non può invece fare a meno del coinvolgimento delle emozioni corporee profonde. Si tratta di creare un’intesa condivisa, cioè anche pubblica o comune».
Ciò che è pubblico è anche esposto al fraintendimento, al rumore mediatico, al sentire massificato.
«Che cosa sia stato e sia nel profondo il “secolo della masse” – l’espressione deriva da Sorel – è ancora una domanda attuale. Non abbiamo un pensiero all’altezza del problema, io credo. Che cosa significa fare politica, fare cultura, e quindi fare anche filosofia, in un tempo globalizzato, massificato, mercificato e via dicendo, non l’ha chiaro nessuno. La fiumana trascina le nostre antiche barche, ormai senza governo».
Appellarsi al passato o alla tradizione?
«Mi sembra evidente che la nostra grande tradizione storico-culturale si è formata in società  così differenti dall’attuale che la pretesa di travasare in essa i nostri contenuti e i nostri stili di pensiero si rivela fatalmente utopica».
Propone una variante della filosofia della crisi?
«No, ma occorre prendere atto della crisi se la si vuole affrontare. Direi perciò che l’evidente crisi del modello capitalistico va in parallelo con la crisi di ciò che un tempo si considerava alta cultura. Il liberalismo politico e il liberalismo economico sono falliti nei loro propositi esattamente come la scuola pubblica e l’universale alfabetizzazione. Non possiamo rinunciarvi perché non conosciamo modelli più efficienti o più realistici, ma non ne deriviamo affatto quel benessere per tutti e quella diffusa formazione critica e liberatrice che erano attesi».
Suggerisce la rassegnazione?
«Suggerisco la consapevolezza. Ogni civiltà  è destinata a tramontare: “Della civiltà  non rimarrà  che un cumulo di macerie e di cenere, ma sopra le ceneri aleggerà  lo spirito”, lo ha detto Wittgenstein. Ci troviamo in mezzo a un grande sommovimento che ci sovrasta e ci inquieta. Il nostro compito è rimettere in gioco la verità . Disincagliarla dal dogmatismo. Non conosco modo migliore per riprendersi il futuro».

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