La sinistra e l’arte di perdere al Nord

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Per esempio, la riforma elettorale e della politica, il dimezzamento dei parlamentari e dei rimborsi elettorali, l’abolizione delle province, il taglio delle spese militari. Secondo passo, le dimissioni di Bersani e dell’intero gruppo dirigente, per lasciare spazio a una leadership più moderna e coraggiosa, con un altro candidato premier: tutti sanno chi. Terzo, il ritorno al voto appena possibile.
Questo invoca la base del Pd, con la stessa ingenua forza con cui diciassette anni fa, quando non esistevano Twitter e Facebook, scriveva imploranti lettere ai dirigenti perché approvassero una legge sul conflitto d’interessi, magari con la Lega ribaltonista. Ma siccome i dirigenti la base non l’hanno mai ascoltata, a costo di perdere un pezzo alla volta, perché oggi sì?
Si può perdere in tanti modi e la sinistra italiana li ha sperimentati tutti. Ma nello stesso modo a distanza di diciannove anni costituisce un record inquietante. L’invincibile armata di Bersani ha ripercorso uno per uno gli errori della gioiosa macchina da guerra di Occhetto, annata ’94. Si è cullata nell’illusione virtuale della vittoria, senza muovere un passo. Invece di intercettare la voglia profonda di cambiamento, ha voluto accreditarsi come sopravvivenza del vecchio. Nel caso di Occhetto, la continuità  con il presunto meglio della Prima Repubblica, con Bersani il meglio della Seconda. Peccato che il Paese fosse già  altrove.
I due milioni di elettori di sinistra che negli ultimi giorni hanno svoltato per Grillo, mettendo in ridicolo i poveri sondaggisti, cominciano a confessarsi sui social network. Ne emerge un lungo elenco di occasioni perse dal Pd per accreditarsi come vera alternativa a una partitocrazia corrotta e moribonda. Un elenco che i nostri lettori conoscono bene, dalle mancate leggi sul conflitto d’interessi alle timidissime battaglie per la legge anticorruzione o la riforma elettorale. E poi tutte le strane assenze quando si trattava di approvare in Parlamento, in regione, in provincia o in comune un qualsiasi taglio dei privilegi di casta. E anzi il voto comune, con l’ultimo Batman di provincia, per aumentarsi i fondi. E gli affarucci di quartiere o gli affaroni delle merchant bankrosse.
A ogni giro un bel pacco regalo di centomila voti a Grillo.
Se a tutto questo si aggiunge l’eterna incomprensione della questione settentrionale, in gran parte coincidente con la questione fiscale, ecco spiegata la sconvolgente geografia del voto. Otto milioni di voti persi da Berlusconi e alleati e non uno finito nel paniere del centrosinistra, che ne ha persi a sua volta quattro milioni. Ci si aspettava nel Nord industriale il ritorno a casa del voto popolare, per anni affascinato dal populismo bossiano. Il risultato è che i 5 Stelle sono di gran lunga il primo partito a Mirafiori e in Barriera di Milano a Torino, nei poli di Mestre e Porto Marghera, nelle aree portuali e nelle periferie industriali di Genova. Oltre che a Sud, nella Taranto dell’Ilva, a Termini Imerese, nel Sulcis. Un luogo comune dice che il difetto della cultura di sinistra è di essere rimasta ancorata alla visione della fabbrica fordista. A giudicare da queste cifre verrebbe da rispondere: magari. Un voto operaio così compatto, per un partito che fra l’altro propone l’abolizione del sindacato, non si registrava dal Pci di Berlinguer, epoca nella quale Beppe Grillo era soltanto la seconda attrazione dei festival dell’Unità , dopo Roberto Benigni.
Un giovane militante del Pd milanese, dopo la mazzata ulteriore della vittoria di Maroni, ha twittato un’immagine rovesciata del celebre “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, con il popolo di schiena che torna a casa, giacca in spalla. Non è un’allusione alla sghangerata banda di Ingroia, piuttosto l’istantanea della dirigenza del centrosinistra. Un mondo, una scuola politica che hanno dato tutto quel che potevano dare, sopravvivendo oltre ogni limite. Bersani era uno dei figli migliori di quella tradizione, ma non è bastato. Di tutta la sua campagna elettorale, l’occasione della vita, si ricorderà  un unico slogan, una battuta presa a prestito da Crozza. Il tempo delle sfide per lui era finito con le primarie. Ora il popolo della sinistra chiama in scena a gran voce colui che la sfida l’ha persa. Ma ha l’aria di potere e soprattutto di volere vincere le prossime, le più importanti.


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