La politica ha sempre voglia di banche ma sottovaluta i loro problemi
L’episodio di Campodarsego, nel Padovano, che ha visto lunedì 11 febbraio un commerciante di fede venetista, Luciano Franceschi, irrompere armato di tutto punto nel locale Credito Cooperativo e sparare due colpi di pistola contro il direttore Pier Luigi Gambarotto, sembra tratto da un film. Mancavano solo le sirene spiegate e i cecchini sui tetti. Ma al di là del carattere sensazionale si inserisce in una campagna elettorale che mostra un preoccupante grado di ostilità nei confronti delle banche. Il vicepresidente dell’Abi Mario Sarcinelli, non certo un banchiere improvvisato ma un uomo che gode di grande stima, invitato da Massimo Giletti nella trasmissione su Rai 1 («L’arena») è stato bersagliato come se davvero si trattasse di un toro da abbattere. Più in generale quando un candidato vuole strappare l’applauso in piazza o in un talk show sa benissimo cosa deve fare: attaccare le banche. Vi ricorrono sistematicamente gli outsider Antonio Ingroia e Beppe Grillo («le banche sono dei mostri, i nuovi Alien») e al punto 5 del programma di Roberto Maroni si legge: «Commissariare le banche che non sostengono le imprese produttive del Nord». Commenta Enrico Morando, parlamentare uscente del Pd: «Il banchiere è diventato il sostituto dell’untore».
Tanta (esibita) ostilità pubblica, comunque, è in evidente contraddizione con la ricorrente voglia di usare le banche per rafforzare il proprio sistema di relazioni o per privilegiare il territorio, il proprio collegio elettorale. «Alla fine è più l’interesse che creano che il credito che erogano», scherza l’ex banchiere Roberto Mazzotta. Per carità , saranno sogni irrealizzabili di metà inverno ma subito dopo lo scandalo di Siena il governatore del Veneto, Luca Zaia, ha lanciato un appello alle forze imprenditoriali del Nordest per ricomprare l’Antonveneta dai toscani. L’ex ministro Maurizio Sacconi ha esposto anche lui un disegno analogo nel nome dell’integrazione delle banche locali. Nordest a parte, l’ipotesi di fondare una o più banche ricorre nei comizi. Umberto Bossi, in una delle sue rare sortite di una campagna elettorale in cui non è protagonista, ne ha proposta una ad hoc per le piccole e medie imprese padane e persino il prudentissimo Umberto Ambrosoli all’inizio della campagna per la conquista del Pirellone ne aveva proposta una per lo sviluppo della Lombardia.
Nel Sud l’equivoco della Banca del Mezzogiorno è ancora lì ma l’ex ministro Giulio Tremonti nel suo programma propone la nascita «di una grande banca pubblica come la tedesca Kfw per dare liquidità alle imprese». Chiude il cerchio degli oscuri oggetti del desiderio una banca non-banca, la Cassa depositi e prestiti, vicina per tipologia proprio alla Kfw. A Roma si vocifera con una certa insistenza che dietro certi attacchi interessati agli attuali vertici ci sia la volontà di metter mano dopo le elezioni al suo organigramma. Perché ogni progetto di rilancio dell’economia — si tratti della cartelle fondiarie per rimettere in moto il ciclo del mattone oppure di un’operazione che si faccia carico dei crediti incagliati — sembra non poter prescindere dal coinvolgimento attivo della Cdp. L’argomento «banche» è stato presente, in maniera duplice, anche nella campagna di Pier Luigi Bersani, costretto in difesa quando si parlava dei rapporti tra Pd e Mps e all’attacco quando in polemica con Mario Monti ha sostenuto che i banchieri devono stare fuori della politica. Il caso vuole però che tra i candidati di un certo peso di queste elezioni ci sia solo un semi-banchiere, quell’Alfredo Monaci ex amministratore del Mps inserito nella lista di Scelta Civica. Il vero pezzo da novanta sarebbe dovuto essere Corrado Passera, ex amministratore delegato Intesa Sanpaolo e protagonista della stagione dei banchieri superstar, ma è rimasto ai nastri di partenza e ha tutta l’intenzione di aspettare il prossimo giro.
Alla perdurante voglia di banca non fa da contrappeso una vera conoscenza dei loro problemi del credito. «Nei partiti c’è un evidente deficit di competenze, non si conoscono i problemi reali del credito e l’attenzione verso quel mondo rimane propagandistica o schizofrenica — continua Morando —. Eppure le competenze serviranno, il prossimo Parlamento dovrà occuparsi del credito perché, senza voler togliere nulla alle autorità di vigilanza, le leggi si fanno ancora alle Camere». Il problema numero uno si chiama scarsa redditività seguito dall’aumento di almeno due punti percentuali del costo della raccolta («un problemaccio» lo ha definito Corrado Passera) ma sono aumentate anche le sofferenze e il personale è in eccedenza. «La verità è che fino a quando la crisi è stata esclusivamente finanziaria la specializzazione tradizionale delle banche italiane ha fatto premio», spiega Marcello Messori, economista e docente alla Luiss. Avevano in pancia molti meno titoli tossici dei loro concorrenti anglosassoni e hanno attraversato senza grossi patemi d’animo la prima metà della crisi. Quando però dalla finanza il contagio è giocoforza arrivato all’economia reale anche le nostre hanno cominciato a ballare. «Forse prima della crisi finanziaria erano state troppo generose verso le imprese e ora pagano le conseguenze di rappresentare la loro unica fonte di finanziamento». Infatti l’emissione di obbligazioni aziendali per finanziarsi sul mercato è prerogativa di sei-sette grandi società e la Borsa non ha certo fatto passi in avanti in quanto a quotazione delle Pmi. «Emergono così i vizi del nostro bancocentrismo — riprende Messori — che si è adagiato sulla condizione di quasi monopolio nell’intermediazione della ricchezza finanziaria delle famiglie».
L’accusa che le associazioni di rappresentanza muovono alle banche suona così: nel processo di consolidamento del settore è cambiato il rapporto con il territorio. I direttori di filiale non conoscono più il tessuto produttivo che li circonda, da qui la debolezza nel selezionare il credito e la tendenza a chiudere comunque i rubinetti. «È vero che, negli anni passati, i nostri maggiori gruppi bancari hanno oscillato tra proiezione europea e ancoraggio al territorio, tra efficienza e concessioni alla politica, ma erano anni di Roe (Return on equity, l’indice di redditività sul capitale proprio, ndr) al 15-18%. Oggi siamo al di sotto del 3% e non c’è più spazio per fare favori. L’intreccio tra banche e politica deve finire per forza», dice Messori. Il legame tra debolezza delle banche italiane e attesa per la ripresa è, invece, al centro dell’analisi di Mazzotta. «Era inevitabile — dice — che il cattivo andamento dell’economia reale mettesse in difficoltà le nostre banche, il guaio è che diventa un’ipoteca sulla ripartenza. Normalmente dopo una crisi finanziaria le riprese dell’economia reale sono state preparate dalla ricapitalizzazione delle banche. Stavolta però la vedo difficile». In campagna elettorale il tema della ripresa è rimasto molto sullo sfondo, nessun candidato ha scommesso in questa direzione, se lo avessero fatto avrebbero dovuto fare i conti con il rebus della riattivazione del circuito del credito. Il mercato non ce la farà a ricapitalizzare le banche, aggiunge Mazzotta, e di conseguenza «solo il fondo salva Stati può farlo». Del resto è un problema non solo italiano, persino le Landesbanken tedesche ne soffrono. «So che è arduo parlare di ritorno al capitale pubblico nelle banche ma è un passaggio inevitabile come lo fu l’Iri negli anni Trenta».
Oltre ad affrontare i problemi di sistema nel dopo-elezioni verrà a maturazione anche il nodo dell’eccedenza di personale. Il contratto nazionale di lavoro dei 360 mila dipendenti bancari è stato firmato solo 7 mesi fa ma si pone già l’esigenza di arrivare a un nuovo patto di produttività . Nel 2012 secondo la Cgil sono stati chiusi 12 accordi sindacali per un totale di 20 mila esuberi. Per far fronte agli esuberi gli istituti di credito dovranno allungare l’apertura delle filiali fino alle 20 e aprire al sabato. La ricetta è quella che sta sperimentando in queste settimane il gruppo Intesa Sanpaolo e propugnata da Francesco Micheli. È più che probabile che venga replicata anche dai concorrenti. Ma le novità non finiscono qui. La professione di bancario è a una svolta, in molti per conservare il posto di lavoro dovranno uscire dalle filiali e diventare dei consulenti porta a porta. Dei 33 mila sportelli attuali non sappiamo quanti ne verranno chiusi. Di fronte a queste novità in piena campagna elettorale e caso Mps il segretario dei bancari della Cgil, Agostino Megale, aveva annunciato la presentazione di un ambizioso piano in sette punti: «Le banche al servizio dell’Italia e del lavoro». Ma poi si è pensato bene di aspettare il responso delle urne. Perché la vera «battaglia» delle banche inizierà solo allora.
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