La poesia all’esame orale
L’accelerazione è stata ancor più brutale di quella dell’immediato dopoguerra e la digitalizzazione delle società umane a cui stiamo assistendo è di proporzioni enormemente maggiori, sia qualitativamente che quantitativamente, rispetto ai cambiamenti a cui faceva riferimento lui. Più che di un salto bisognerebbe parlare di una serie di salti, a intervalli sempre più brevi, salti sempre più alti — e dunque shock sempre più brutali — che da allora si susseguono, mutando radicalmente i paradigmi delle nostre percezioni e quelli della nostra «esperienza del mondo e del linguaggio».
Che tutto questo abbia influenzato e influenzi le arti, e in primo luogo la poesia e la letteratura, non può meravigliare, anche perché una di queste svolte epocali riguarda precisamente i codici linguistici, il rapporto tra scritto e orale, così come esso viene praticato ed esperito a livello antropologico globale.
La possibilità di conservare e rendere stabile e dunque «ricorsiva», ri-eseguibile la voce umana, in uno con il diffondersi dei social network e delle chat digitali, in cui l’odierna impermanenza dello scritto si fa evidente, ci suggeriscono che da una società in cui scripta manent, verba volant si stia passando a un mondo in cui scripta volant, verba manent, un mondo, cioè, molto meno «alfabetico» di quello a cui siamo abituati.
Tutto ciò non significa affatto che si sia ritornati alla situazione di partenza, ovviamente: comporre testi destinati all’oralizzazione è compiere un’operazione anche intimamente letteraria e non solo performativa, o di neo-orale naiveté, intanto giacché questi testi nascono scritti e anche scritti restano, poi perché essi avranno caratteristiche letterariamente assolutamente nuove, anche e precisamente nel loro essere dei testi scritti e non solo nel loro realizzarsi in questa o quella «oratura», dato che la loro destinazione finale, che è orale, ne muta profondamente anche le forme scritte, alfabetiche.
Uno sguardo al panorama poetico internazionale non può che confortare le osservazioni proposte sin qua: la poesia, pur continuando a essere in molti casi poesia nata per essere fruita in silenzio, è ormai anche — e con diffusa evidenza — poesia «oralizzata», testo che si realizza compiutamente solo attraverso la sua «esecuzione», sia dal vivo che in registrazione.
Molti dei grandi maestri dell’ultima parte del Novecento sono ancora vivi e produttivi, si pensi ad autori come Ferrer, Giorno, Kwesi Johnson, Blaine, Lunch, Pey, Last Poets e quelli che ci hanno lasciato, come De Campos, Scott Heron, o Prigov, hanno seminato benissimo, almeno a giudicare dagli autori delle generazioni successive (nati tra gli anni Cinquanta e i Settanta) tra cui sono molte le personalità di spicco internazionale, a volerne citare qualcuno, il brasiliano Antunes, gli inglesi Lachlan Young e Beard, gli americani Williams, Rucker, Ladd il sudafricano Kaganof, l’occitano Karpenya, l’austriaco Uetz, per giungere sino ai più giovani — un elenco che sarebbe invero molto più lungo: il russo Delphinov, i germanofoni Boettcher e Vetter gli spagnoli Accidents Polipoetics, Escoffet, Ajo, la sudafricane Splinter e Molebatsi, i francesi Eupedien e Kuntz, lo svedese Bowers, il polacco Piasecki, il brasiliano Domeneck, la lituana Labanauskait, gli americani Gibson e Beaty, gli inglesi Francois e Sissay.
Si tratta di autori in cui, a un’alta qualità formale a livello letterario, si accompagna una grande abilità e coscienza formale a livello performativo, che talora non si limita alla semplice esecuzione orale di un testo, ma tenta la scommessa successiva, quella del dialogo con la musica, trasformandosi in spoken music.
Alcuni di loro, soprattutto i più giovani, si sono fatti strada attraverso il Poetry slam, la competizione poetica inventata dall’americano Kelly Smith negli anni Settanta e che ormai è diffusa in tutto il mondo, imponendosi come una delle strade più efficaci per richiamare alla poesia un pubblico sempre più ampio, attento, «auditivamente» competente.
Più complessa, frammentata, è la situazione italiana. Se è evidente una diffidenza maggiore dei lettori di poesia italiani, piuttosto riluttanti a sperimentarsi anche come «ascoltatori» di poesia, e un’ostilità della critica che non ha pari in Europa per certa sotterranea unanimità , per altro verso il fenomeno dello spoken word ha ormai una sua consistenza e visibilità anche da noi. Non a caso la riflessione teorica sulla poesia «oralizzata» trova nel raffinato lavoro di scavo di Frasca una delle sue vette internazionali, in un panorama mondiale tanto vivace di proposte, quanto scarso di riflessioni, mentre un’iniziativa editoriale come «Fuori formato», diretta da Cortellessa, ha iniziato a mettere a disposizione dei lettori (e degli ascoltatori) una notevole messe di materiale, non solo proponendo nuovi autori, ma salvando dall’oblio molte delle più importanti tra le passate esperienze.
Così è evidente come sia ormai possibile individuare anche da noi, se non un «canone», almeno una galassia che, per quanto contraddittoriamente, lega molte esperienze contemporanee, una nebulosa in cui interagiscono, a volte cortocircuitando, le prime sperimentazioni di autori come Spatola, Vicinelli, Costa, Rosselli, Pagliarani, Balestrini, Insana, Cinque, o il cammino recente di poeti «sonori» quali Fontana e Minarelli, con la scommessa di autori «liminari», penso a Scarpa, Timi, Brondi, insieme a tanti altri che da tempo eseguono i loro testi sul palco, Lo Russo, Gualtieri, Bukovaz, la stessa Valduga, le cui doti di «esecutrice» sono spesso trascurate, Masala, Ottonieri, il già citato Frasca.
L’importanza dell’oralità nell’educazione dell’infanzia alla poesia ha un solido baluardo in Carminati e Tognolini e lo Slam italiano ha tenuto a battesimo autori di qualità , come Ventroni, Nacci, Fusco, Raspini, Garau e il Gruppo Sparajurji, Socci, Bulfaro, Cera Rosco.
Ciò che colpisce è, però, l’assenza in Italia di esordi interessanti, sia pur con qualche eccezione: Carrozzo, il giovanissimo Dubito, che ci ha lasciato troppo presto, Daino, Padua. Quasi che fosse già in atto un riflusso restaurativo, gli «ultimissimi» italiani sembrano piuttosto interessati a guardare altrove, verso vecchi e nuovi silenziosi simbolismi, facendo finta che non sia successo e non stia succedendo nulla, mentre molto è, invece, già accaduto da tempo.
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