La parola «dittatura», da Mao Zedong a Gao

by Sergio Segio | 28 Febbraio 2013 9:04

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PECHINO. Nella Cina che si prepara all’annuale Assemblea Nazionale, il Parlamento cinese, prevista per la prossima settimana, cresce l’attesa per capire quale sentiero legislativo potrà  essere suggellato dalla nuova leadership. La «quinta generazione» dei leader cinesi ascesa al vertice del potere politico dopo il diciottesimo congresso, è attesa al varco da molte potenziali riforme che potrebbe modificare la Cina, anche se non in modo drastico. La stabilità  e la necessità  di procedere con estrema cautela sono il mantra della leadership. La composizione, tendenzialmente conservatrice, del nuovo Comitato Centrale del Politburo sembra confermare questa tendenza. In questo clima di attesa però si distinguono alcune questioni che vengono poste all’attenzione dei legislatori cinesi. Negli ultimi giorni una parola ricorrente nelle conversazioni politiche in Cina, specie sul web, è stata zhuanzheng, ovvero «dittatura». Merito di un intellettuale in aria di dissidenza, Cao Siyuan che in un seminario a Hong Kong ha invitato l’Assemblea Nazionale a procedere all’eliminazione del concetto di «dittatura del proletariato» dalla costituzione cinese.
L’evento, anche se proviene da una voce da sempre piuttosto scomoda per il governo, ricorda le dicerie sulla possibilità  che i riferimenti al pensiero di Mao Zedong potessero essere eliminati dallo statuto del Partito Comunista, durante il Congresso. Come nel caso di Mao, anche la richiesta di Cao è probabile non troverà  alcun seguito. «Tutti noi – ha affermato Cao – dovremmo chiedere l’eliminazione del termine dittatura dalla costituzione. Un mio studio delle costituzioni di più di 110 paesi ha rilevato che il 99% non menziona questa parola». Il richiamo alla Costituzione è un tema piuttosto sentito in questo scorcio di storia cinese. Il segretario del partito, Xi Jinping, in un discorso effettuato lo scorso dicembre, aveva specificato che i «funzionari devono tutelare i diritti costituzionali dei cittadini e reagire contro coloro che violano la Costituzione e la legge», come riportato dai media di stato. È assai improbabile che la parola dittatura venga tolta dalla costituzione, visti anche gli ultimi accenni di Xi alla necessità  di mantenere il controllo della situazione, per non rischiare di finire come l’Unione Sovietica, autentico spauracchio di Zhongnanhai, il Cremlino cinese. E così, ancora una volta, a immaginare scenari di cambiamento radicale per la Cina, è toccato ad un altro intellettuale, Minxin Pei, esperto di governance cinese e di relazioni tra Cina e Stati Uniti, professore al Claremont McKenna College e senior fellow al German Marshall Fund in Usa. In un articolo pubblicato sul The Diplomat Mingxin Pei ritiene che la Cina possa arrivare ad una situazione democratica, in cinque modalità  differenti. Il professore parte dal presupposto che il decadimento sociale della logica autoritaria, la debolezza della classe dirigente che fatalmente invecchia, liberando il campo a carrieristi non ideologizzati, e i cambiamenti socio economici – urbanizzazione, crescita della classe media, un’opinione pubblica che richiede nuovi standard di vita – portano ad una «naturale» evoluzione verso la democrazia. Tendenza che può tramutarsi in reale cambiamento attraverso cinque scenari possibili.
Il primo vedrebbe la Cina sulla strada tracciata da Brasile, Messico o Taiwan: il Pcc dovrebbe allentare il controllo sui media, favorire dialoghi con la società  civile, traghettando il cambiamento verso elezioni che potrebbe poi vincere, in quanto artefice della trasformazione. La seconda possibilità , che Mingxin Pei definisce «Gorbacev in Cina», vedrebbe il Partito Comunista incapace di sfruttare le opportunità  di riformare ora il sistema. In questo caso il cambiamento sarebbe una condanna, con la possibilità  che nuove personalità , come fu Gorbacev per la Russia, possano lanciare una perestrojka e una glasnost con caratteristiche cinesi. Mingxin Pei non dimentica le tradizioni di cambiamenti nel Celeste Impero accompagnati da dosi massicce di violenza: e così la terza possibilità  – «Tienanmen redux» – prevederebbe un cambiamento radicale e derivato da sanguinose rivolte sociali. Nella carrellata non mancano altri due temi molto rilevanti in Cina: la questione finanziaria e quella ambientale. «Il nostro quarto scenario – scrive Minxin Pei – può avviare una transizione democratica in Cina, allo stesso modo in cui la crisi finanziaria asiatica del 1997-98 ha portato al crollo di Suharto in Indonesia: è un fatto ben noto oggi che il sistema finanziario cinese ha accumulato enormi sofferenze e che può ritrovarsi in una situazione di insolvenza». Infine, l’ambiente, nel momento in cui il collasso dovesse essere «sostanziale in termini di assistenza sanitaria, mancanza di produttività , acqua e altro».
Simone Pieranni

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MARTEDàŒ XI JINPING SARà€ PRESIDENTE
Cento intellettuali: ratificare la Convenzione sui diritti civili

Martedì prossimo comincerà  l’Assemblea Nazionale, che ufficializzerà  la nomina a presidente della Repubblica Popolare di Xi Jinping.
Da ieri sull’internet cinese gira un appello firmato da un centinaio di intellettuali cinesi, accademici, giornalisti, attivisti, che chiede all’assemblea legislativa e ai leader del paese di ratificare il Patto internazionale sui diritti civili e politici, una convenzione internazionale che risale al 1976, della quale fanno parte 176 stati (perfino la Corea del Nord).
Secondo i firmatari, ratificare il trattato significherebbe «promuovere e realizzare i principi di un paese basato sui diritti umani e in grado di applicare la sua Costituzione. Temiamo che a causa della mancanza della difesa dei diritti umani e dell’assenza del rispetto fondamentale e delle garanzie per la libertà , i diritti e la dignità  degli individui, se dovesse scoppiare una vera e propria crisi, tutta la società  crollerebbe nell’odio e la brutalità ».
Sembra invece definitivamente tramontata l’ipotesi di abolizione dei laojiao (abbreviazione di laodong jiaoyang), i campi di rieducazione attraverso il lavoro, da non confondere con i laogai, i campi di lavori forzati per i condannati penalmente, aboliti nel 1979.
Durante l’Assemblea Nazionale si parlerà , secondo fonti interne al Partito comunista cinese, solo di una possibile riforma del laojiao, dove oggi finiscono spesso persone ancora in attesa di una condanna definitiva.

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