La lotta agli scandali del Papa teologo nel solco di Wojtyla

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Passerà  alla storia come un pontificato legato a doppio filo a quello del predecessore, con il quale il cardinale Ratzinger aveva collaborato per 23 anni e che da Papa ha rapidamente proclamato beato (1° maggio del 2011). È stato uno scrupoloso continuatore del predecessore in tutte le principali scelte di governo e di predicazione ma con tre correzioni principali: maggiore attenzione alla tradizione e alla dottrina, spinta alla moralizzazione interna, minore intervento nei problemi sociali e internazionali. Non ha fatto riforme di portata generale, ma ha svolto un magistero dottrinale di grande rilievo, ponendo al centro di esso la figura di Gesù e il problema della fede. Non si potrà  dimenticare che la sua prima enciclica era intitolata Deus Caritas Est («Dio è amore») e l’ultima sua iniziativa è stata l’indizione di un «anno della fede», che sarà  concluso dal successore il prossimo autunno.
Fu eletto il 19 aprile del 2005 da un Conclave rapidissimo, di soli quattro scrutini, dominato dall’interrogativo su chi potesse prendere sulle sue spalle l’impressionante eredità  di Giovanni Paolo II. Già  dalla scelta del nome si intuì che voleva fuoriuscire dalla sequenza dei Papi conciliari (Giovanni, Paolo e i due Giovanni Paolo), ma senza inserirsi in quella dei Papi di nome Pio, come a smarcarsi sia da chi lo volesse ascrivere alla filiera continuista, sia da chi si fosse aspettato che la potesse contestare. Nei suoi otto anni da Papa, non completi, Benedetto XVI ha avviato una grande opera di pulizia in materia di scandali sessuali e di finanze vaticane, non è riuscito invece a riportare il buon ordine nella Curia romana, la terza tra le crisi che si sono ingrossate sotto il suo pontificato.
Lo scandalo della pedofilia del clero aveva già  rumoreggiato lungo gli ultimi anni del pontificato wojtyliano, ma ha raggiunto una violenza straordinaria nel triennio 2008-2010 e qui — per unanime riconoscimento — il colpo di barra del Papa teologo è stato deciso ed efficace: ha riformato le procedure processuali rendendole più severe, ha chiamato a penitenza l’intera Chiesa e le singole comunità  nazionali (esemplare la lettera ai cattolici irlandesi del marzo del 2010), ha incontrato personalmente una decina di volte, in vari Paesi e a Roma, gruppi di vittime: come un lascito evangelico valido per il domani.
La riforma del comparto finanziario della Santa Sede non è stata altrettanto efficace, o non ha dato ancora tutti i suoi frutti: le nuove leggi sono state promulgate nel dicembre del 2010, apprezzate dagli osservatori esterni, ma parzialmente contestate all’interno e applicate forse con troppa lentezza. Lo Ior continua a tornare nelle cronache senza riuscire a scrollarsi di dosso tutti i sospetti.
Nel governo della Curia è da vedere la maggiore debolezza del pontificato. Forse per troppa fiducia del Papa nel segretario di Stato, il cardinale Bertone, scelto per l’ottima consuetudine personale ma che non ha saputo — o voluto — conquistarsi il favore dell’ambiente diplomatico vaticano al quale era estraneo per formazione. La vicenda del «corvo» è stata solo l’emergenza esterna di un malessere interno molto diffuso.
Nelle relazioni con le altre chiese cristiane, con gli ebrei e con le varie religioni, come nella predicazione della pace, Benedetto ha continuato l’opera del predecessore quasi senza cambiamenti, tranne che per quanto riguarda la Comunione anglicana: qui ha disposto una possibilità  ampia di passaggio alla Chiesa cattolica da parte di anglicani scontenti delle riforme (principalmente l’ammissione delle donne al sacerdozio e all’episcopato) che quella Comunione sta attuando. Con un documento del novembre del 2009 papa Ratzinger ha stabilito che vescovi e preti anglicani che vogliono passare alla Chiesa cattolica, magari portando con sé gruppi di fedeli, possono farlo mantenendo i propri libri liturgici e ogni propria normativa e venendo a costituire degli «ordinariati» a capo dei quali possono essere messi anche sacerdoti sposati: questi vengono riordinati secondo il rito cattolico ma continuano — se sposati — a vivere nel matrimonio pur essendo associati a un ruolo di responsabilità  e di ministero che è analogo a quello che nel resto della Chiesa cattolica svolgono i vescovi. Una riforma che è un bel lascito ai successori, se vorranno mettere mano alla questione del celibato e prevedere l’ordinazione di uomini sposati, nella permanenza della legge del celibato come via ordinaria.
Altra mossa audace e controversa: Benedetto ha tentato di riportare nella piena comunione i tradizionalisti che seguono il vescovo Lefebvre, facendo concessioni in materia liturgica e disciplinare, ma il tentativo è restato a metà . Il motu proprio che autorizza l’uso dell’antico messale preconciliare in latino è del luglio del 2007, mentre all’inizio del 2009 il Papa ha tolto la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani che erano stati ordinati «senza mandato» da Lefebvre nel 1988. Nonostante questi passi, la riconciliazione ancora non si è realizzata e l’ambiente lefebvriano ha continuato a considerare «modernista» e «troppo legato al Vaticano II» papa Ratzinger.
In ogni campo si è mosso con maggiore prudenza rispetto all’ardimento missionario del predecessore, ma in nessuno ne ha sconfessato l’opera. Seguendo le sue orme ha visitato sinagoghe (è stato per esempio in quella di Colonia nel 2005 e in quella di Roma nel 2011) e moschee (la Moschea Blu di Istanbul nel 2006, la moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman nel maggio del 2009), ha fatto il missionario per il mondo (24 viaggi fuori d’Italia) e ha convocato le religioni ad Assisi per la pace nell’ottobre del 2011, compiendosi i 25 anni della «giornata» indetta da papa Wojtyla.
Un discorso di Benedetto a Regensburg nel settembre del 2006, nel quale citando un autore medievale aveva echeggiato una drastica critica al «profeta Maometto» in materia di fede e violenza, aveva fatto temere un abbandono della via del dialogo con l’Islam, ma fu sufficiente il viaggio in Turchia del novembre successivo per riannodare i fili. Anche con l’Ebraismo non sono mancati i momenti turbolenti, ma complessivamente il rapporto è continuato sulla stessa linea maestra ereditata dal predecessore: come già  Giovanni Paolo II ha visitato il campo di Auschwitz nel maggio del 2006 e come lui ha pregato al Muro del Pianto di Gerusalemme nel maggio del 2009.
«Cerco di restare me stesso» aveva detto in un’intervista alle reti televisive tedesche nell’agosto del 2005, all’inizio del pontificato: e in questo è riuscito senza farsi condizionare dall’ombra del predecessore, continuando a scrivere l’opera su «Gesù di Nazaret» che aveva iniziato da cardinale (il primo volume è del 2007, il secondo del 2011 e il terzo del novembre scorso), e infine dimettendosi.
È restato l’uomo che era: un professore desideroso di tornare agli studi e deciso a portare a termine un lavoro iniziato, un uomo di fede che si sente chiamato a porre a tutti — in un mondo sempre più frastornato — la questione della fede. Con parole accorate aveva parlato nel dicembre del 2011 della «crisi della Chiesa in Europa» che viene da una «crisi della fede», arrivando a descriverla con le parole «stanchezza» e «tedio dell’essere cristiani». Qui — più che in voci di oscure malattie — va cercata la prima ragione della sua stanchezza e dell’aspetto preoccupato che sempre più è venuto caratterizzandolo negli ultimi tempi.
Una decisione — quella della «rinuncia al pontificato» — che è un atto di libertà  rispetto a una tradizione di secoli. Per sottrarsi al peso di quella tradizione era necessaria una personalità  indipendente, un uomo realmente appartenente — come formazione culturale — alla modernità .


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